Gianni Minà andava dritto al cuore

Le sue interviste agli sportivi, e non solo agli sportivi, restituivano un senso di sazietà, di completezza. E hanno segnato un'epoca.

L’impresa più complessa è provare a raccontare Gianni Minà senza essere nostalgici o passatisti. Diciamo che è quasi impossibile. Quindi ci liberiamo subito di un peso: era un’altra epoca. Punto. Che fosse meglio o peggio, non lo sappiamo. Ma era un’epoca in cui poteva capitare che nella finale degli Internazionali di tennis di Roma del 1976 (allora si andava al riposo alla fine del terzo set), la passeggiata di Adriano Panatta verso gli spogliatoio venisse accompagnata e raccontata in presa diretta da Gianni Minà. Che percorse il lungo corridoio del Foro Italico al fianco di Adriano e gli faceva domande sulla partita, sotto lo sguardo interrogativo di Mario Belardinelli (uomo discretamente burbero) che in cuor suo avrebbe mandato Minà in uno dei tanti paesi lontani dell’immaginario. Non pago, Minà provò a intervistare anche l’avversario: Guillermo Vilas, che era in compagnia del padre. Questo è possibile oggi? Non è possibile. Quindi non è passatismo, raccontiamo una diversità. Perché va detto che per tutta la conversazione – non dura pochissimo – un Panatta visibilmente affaticato risponde alle domande, non è che liquida l’interlocutore con quelle frasi di circostanza che ormai ben conosciamo.

È in questo mondo che si muoveva, lavorava e brillava Gianni Minà. Un grande giornalista. Preparato, curioso, affidabile. Bisogna stare attenti all’affidabile. Perché gli atleti, coloro i quali stanno dall’altra parte della barricata, hanno questo problema enorme nell’affrontare i mass-media. Vivono col terrore di essere fregati. Gianni Minà, evidentemente, riusciva a conquistare la loro fiducia. E aveva il pregio di farlo con interviste che non erano sdraiate. Seguivano sentieri più personali, ma le curve c’erano eccome. Minà le domande le poneva. Sapeva benissimo cosa poteva interessare allo spettatore. Non solo gli portava Maradona, Muhammad Ali, Mennea (per rimanere allo sport, altrimenti potremmo sfociare in Scorsese, Sergio Leone, Robert De Niro e ovviamente Fidel Castro) ma riusciva a tirar fuori dai fuoriclasse quello che provavano, i macigni che magari portavano dentro da una vita, e ad ascoltare i loro sfoghi.

C’è un video in cui Minà racconta la prima intervista con Muhammad Ali e al termine il giornalista torinese rimase male. Era consapevole che il lavoro non era venuto come lui aveva sperato. Ali se ne accorse, secondo il racconto di Minà: «Mi chiese “Non sei contento?”. E io risposi no, che non ero contento. Allora Ali mi disse: “io pensavo che tu fossi uno di quei giornalisti europei che vogliono sempre impartirci la lezioncina su come stare al mondo. Ho capito che sei diverso. Non preoccuparti, la prossima volta l’intervista andrà meglio”. E infatti così fu». Non a caso, in una celebre intervista tv, c’è Massimo Troisi che dice: «Io vorrei avere l’agendina di Gianni Minà». Uno che alzava il telefono e parlava più o meno con tutti. Che viene citato nel film di Oliver Stone Natural born killers: «Quell’italiano che ha intervistato Fidel Castro».

Era una tv meno sincopata. Andava dritto al cuore, non si preoccupava delle attese. Forse perché c’era meno frenesia. Minà prediligeva un certo tipo di storie. Grandi fuoriclasse, parliamo di atleti che hanno segnato la storia dello sport e del costume, dietro cui c’era un uomo da raccontare. Fuoriclasse che spesso si erano ritrovati a dover combattere non tanto contro gli avversari ma contro l’establishment, il potere. Ali e Maradona incarnavano perfettamente queste figure. Minà aveva un rapporto privilegiato con quelli che possiamo considerare i due principali leader politici prestati allo sport. Uno che era finito in disgrazia per non aver voluto combattere la guerra in Vietnam («Nessun vietcong mi ha mai chiamato sporco negro») e l’altro con la sua vita di eccessi e che per primo, in solitario, aveva denunciato le malefatte della Fifa e della politica del calcio. E le pagò tutte sulla sua pelle.

Una pietra miliare nella storia della tv italiana

Erano queste le storie che Gianni Minà amava. E quando l’avversario non era il Palazzo, c’era una marginalità da raccontare. Il giornalista era a Città del Messico a raccontare un’impresa storica: Pietro Mennea che stabilì il record del mondo dei 200 metri in 19 secondi e 72 centesimi. Record che durò ventisette anni. L’uomo più veloce del mondo era di Barletta, sud Italia, e da ragazzo cominciò sfidando le automobili sui cento metri. Amava i racconti che stillavano sudore. Voleva mostrare il sacrificio che c’era dietro le vittorie e le copertine patinate. Ecco, Minà aveva una passione per il backstage. Desiderava mostrare l’altro lato del campione. E lo faceva senza mai essere spigoloso. Con i suoi tempi. Le interviste seguivano i propri percorsi. Girava intorno e poi arrivava all’obiettivo. E quando arrivava al cuore, le perle si susseguivano. È come se avesse avuto il dono di portare quei fuoriclasse nelle case degli spettatori. Al termine dell’intervista, ci si alzava dal divano con un senso di pienezza, di soddisfazione. Si conosceva davvero il punto di vista dell’intervistato.

Non era un giornalista per tutte le stagioni. Né per tutti i personaggi. Ci piace vincer facile nel ricordare che non si sarebbe trovato a suo agio nel calcio spiegato con i numeretti. Facciamo fatica a immaginare Gianni Minà chiedere pensoso a un allenatore come sia cambiato il suo rapporto con la vita nel virare la squadra dal 4-4-2 al 4-3-3. Più semplicemente, non gliene sarebbe fregato niente. Non era interessato ai tecnicismi. Ma al modo di stare al mondo. Che è poi quel che tutti ricordiamo delle persone.

Se state aspettando il momento in cui scriveremo che interviste così non ne vediamo più, vi deluderemo. E azzardiamo che sono cambiati i tempi ma ad esempio – con tempi, forme e modi diversi–  l’intervista dello youtuber Sinnaggagghiri a Sofia Goggia siamo certi che sarebbe piaciuta a Minà. Perché il personaggio viene fuori, anche se nella maniera sincopata preferita dagli youtuber. E quindi sì, era un’altra epoca. In cui Minà aveva trasformato Blitz – la sua trasmissione domenicale su Raidue – in una sorta di luogo d’incontro dove le celebrità andavano e venivano, si sentivano a casa, al sicuro. Certi che Gianni non li avrebbe mai fregati. E loro, sul divano, sentendosi a proprio agio, potevano conversare in libertà. Questo era lo stile di Minà. Poco importa, per quel che ci riguarda, per quanto tempo abbia lavorato. Ha lasciato un segno profondissimo nel giornalismo e nella società. Era un giornalista internazionale e lo era senza fare alcuna fatica. Aveva la visione ampia. Mai angusta. Così come mai rinunciava a far capire il proprio punto di vista. Ma la sua non era parzialità. Era una forma di rispetto nei confronti dello spettatore. Faceva capire immediatamente da che parte stava. Quale fosse la sua visuale. Ma non alterava mai l’immagine. Né alzava mai la voce.

La foto in apertura è di Paolo Ranzani, via Wikipedia Commons