Ora anche i giocatori di Premier League sono diventati dei nerd tattici

L'influenza di Guardiola ha avuto un certo peso, ma non è l'unico grande cambiamento.

Per tanti anni la Premier League è stato considerato un campionato poco tattico: la sensazione era che gli allenatori ma anche i calciatori delle squadre inglesi fossero elementari – per non dire basici – nella creazione, nella comprensione e nell’attuazione dei sistemi di gioco. Il retaggio culturale legato a questa percezione esiste ancora oggi, ma le cose stanno cambiano. Anzi: sono cambiate. A raccontarlo è questo articolo di Espn in cui si parla inevitabilmente del Manchester City e dell’influenza di Guardiola, ma anche di altri cambiamenti avvenuti negli ultimi anni. E sono gli stessi interessati, calciatori e tecnici, a spiegare come sono andate le cose. Tra questi c’è Curtis Davies, 38enne difensore del Derby County – attualmente in League One, la terza divisione della piramide calcistica inglese – che negli anni Zero e Dieci ha militato nell’Aston Villa, nell’Hull City, nel Birmingham, tutte squadre di Premier League: «Quando era ragazzo a Wimbledon, e poi all’inizio della mia carriera, tutti giocavamo col 4-4-2. I difensori difendevano, i terzini sostenevano le ali, c’erano due centrocampisti che stavano piatti. Non c’erano falsi terzini, ali invertite, tutte le diavolerie che vediamo oggi».

Le cose sono cambiate – o meglio: alcuni allenatori hanno iniziato a cambiare le cose – solamente quindici anni fa. Questa è stata la percezione diretta di Davies: «Il primo allenatore che ha iniziato a farci giocare in modo più strutturato è stato Tony Mowbray al West Brom. Era il 2006, più o meno, e abbiamo iniziato a lavorare su un centrocampo con posizioni diversi, su movimenti particolari da parte delle ali. Abbiamo anche iniziato a guardare il video degli avversari. Piuttosto che fare affidamento solo sui nostri giocatori migliori per far accadere qualcosa, avevamo un sistema sofisticato». Da lì in poi, l’allenamento specifico e lo studio tattico delle squadre avversarie sono diventati sempre più approfonditi. Merito anche degli allenatori stranieri che, sulla scia del successo di Wenger all’Arsenal, hanno invaso la Premier negli anni Duemila. Ancora Davies racconta che «il lavoro fatto con Marco Silva quando eravamo insieme all’Hull City, nel 2017, mi ha mostrato come ci si può adattare agli avversari: a quel tempo giocavo a centrocampo, ma sapevo in ogni momento dove dovevano essere i miei compagni, come avremmo dovuto muoverci se gli avversari avessero cambiato il centrocampo passando a tre, erano cose che avevamo studiato il giovedì e il venerdì. Avevamo un piano A, ma avevamo anche un piano B e un piano C». Tutto un altro mondo rispetto a qualche anno prima: «Da ventenne, guardavo una partita e non pensavo al pressing degli avversari. Dicevo “l’Arsenal ha vinto 4-0, hai visto il gol di Henry?”. Non ero molto interessato alla tattica, ecco».

Insomma, si può dire: a volte anche i luoghi comuni possono essere veritieri. Ma non sono inscalfibili, cioè le cose possono cambiare Lo dimostra anche il racconto della vita di Matt Wells, aspirante calciatore nell’Academy del Tottenham e oggi assistente tecnico degli Spurs. Quando era nel settore giovanile, la sua passione per la tattica veniva definita «bizzarra» dai suoi compagni; oggi è uno dei coach più apprezzati dell’intera Premier League. E dice che «i calciatori di oggi sono sempre molto ricettivi al lavoro strategico in allenamento, anzi sono loro a parlarne tra loro e con noi. Io provo sempre ad ascoltarli, per esempio gli olandesi – tra cui Ryan Babel, con cui ha condiviso una stagione al Fulham – non solo vogliono sapere cosa stanno facendo in campo, ma anche perché lo stanno facendo. È bello sentire che i giocatori vogliono ampliare le loro conoscenze, e quindi migliorare». Un’altra testimonianza interessante è quella di Layton Stewart, ventenne attaccante che da 13 anni gioca nell’Academy del Liverpool: Stewart ha raccontato che «nella nostra squadra noi abbiamo un’app chiamata Hudl che usiamo per comunicare con i nostri match analyst e i nostri coach. Chiediamo come giocano i nostri avversari, quali sono i dati delle loro prestazioni, ci informiamo su come dobbiamo pressare e su come gioca la prima squadra: sono tutte cose che facciamo perché è necessario studiare e conoscere lo sport che pratichiamo, perché vogliamo avere un vantaggio competitivo».

E poi ci sono le eccellenze: nell’articolo di Espn si parla di Bernardo Silva, del fatto che il fantasista portoghese si senta «un calciatore profondamente diverso rispetto a dieci anni fa». Il cambiamento, ovviamente, è legato al suo incontro con Guardiola: «È stato difficile per me adattarmi a un manager del genere: ti fa lavorare in modo intenso su tante cose, sulla tattica, sulla condizione fisica, sulla comprensione del gioco. Con lui al City ho giocato in posizioni molto diverse, quest’anno anche come terzino che diventa centrocampista centrale in fase di costruzione. Questa varietà ti fa capire cosa devi fare in diverse zone del campo, ovviamente in base ai principi della squadra». È grazie a questi anni vissuti con Pep che Bernardo Silva ha sviluppato una vera passione per la tattica: «Mi piace parlarne con i compagni. Io e Rúben Dias, per esempio, giochiamo in posizioni diverse e completiamo a vicenda le nostre visioni del gioco. Ho imparato molto da lui. E da Guardiola, ovviamente: lui mi ha insegnato che non ci si può accontentare di vincere e basta, di fare sempre le stesse cose. Io prima la pensavo in questo modo, ma lui ogni anno continua a cambiare e a fare ancora meglio. Evidentemente mi sbagliavo».