Nell’estate 2021, quando il Bayern Monaco ha deciso di far firmare a Julian Nagelsmann un contratto di cinque anni, tra l’altro dopo aver versato quasi trenta milioni di euro nelle casse del RB Lipsia per poterlo liberare, la sensazione era che il direttore sportivo Hasan Salihamidzic e il nuovo CEO Oliver Kahn avessero in mente un progetto da sviluppare a lungo termine, accettando anche il rischio di un paio di stagioni di transizione. In fondo Nagelsmann, nel suo quinquennio, sarebbe stato chiamato a gestire un ricambio generazionale piuttosto delicato, a partire dal declino o dagli addii di Neuer, Müller e Lewandowski. Più di qualcuno, anche tra gli addetti ai lavori, credeva che il giovane tecnico lanciato dall’Hoffenheim – allora appena 34enne – fosse arrivato un po’ prematuramente sulla panchina del club più importante di Germania; allo stesso tempo, però, si riteneva che fosse uno dei pochi allenatori, se non l’unico, in grado di dar vita a un progetto con una prospettiva non immediata. Posto che i trofei, a Monaco, contano dal primo all’ultimo.
Da lì a immaginarsi che un secondo posto in classifica a marzo, a un solo punto di distanza dal Borussia Dortmund e lo scontro diretto da giocare in casa, potesse portare all’esonero di Nagelsmann, ce ne passa. Per spiegare i motivi di questa decisione, Kahn aveva parlato di «qualità che emerge sempre meno», di «risultati altalenanti che mettono a rischio i nostri obiettivi stagionali e futuri», di «necessità di azioni immediate». Erano tutte motivazioni sportive discutibili. Nell’ambiente Bayern, infatti, sono in tanti a credere che il fattore realmente determinante per il licenziamento di Nagelsmann,, oltre a un rapporto umano difficile e a certi comportamenti considerati inopportuni, in ultimo la vacanza sugli sci del tecnico dopo il ko di Leverkusen, sia stata la possibilità di accaparrarsi Thomas Tuchel, vecchio pallino della dirigenza, un tecnico già inseguito e sfuggito nel 2018. E il fatto che in Germania si parli di una sua conferma a prescindere da questo finale di stagione avvalora la tesi.
A questo punto, però, ha senso chiedersi se le cose siano state fatte con i modi e con i tempi giusti. Perché al 24 marzo, giorno dell’annuncio dell’esonero di Nagelsmann, il Bayern era in piena corsa su tutti i fronti. E invece sabato prossimo a Monaco potrebbe andare iniziare la prima estate senza titoli dal 2012 – al netto di clamorosi scivoloni del Borussia Dortmund in casa contro il Mainz. In realtà va detto che il passo indietro dal punto di vista tecnico sembra la conseguenza di un qualcosa di più grosso. La macchina perfetta che controllava le partite di Champions League annichilendo Inter, Barcellona e Psg è un ricordo neanche tanto sbiadito, e fa quasi rabbrividire il pensiero che in quella squadra c’erano gli stessi giocatori che sono riusciti a vincere appena cinque delle 11 gare disputate dall’arrivo di Tuchel in poi, vivendo crolli psicologici preoccupanti: le sconfitte con Lipsia, Mainz e Friburgo sono arrivate da situazioni di vantaggio, così come il pari con l’Hoffenheim. Tutto molto surreale. Sulle pagine di TZ, Philipp Kessler e Manuel Bonke hanno scritto che «il rapporto tra giocatori e dirigenza è ai minimi termini», specialmente dopo il botta e risposta tra Kahn e Thomas Müller nel post 1-3 col Lipsia – la partita che è costato la vetta della Bundes a una giornata dal termine. Il Ceo ha parlato di «sensazione che la squadra crolli quando subisce un gol e non sappia reagire»; parole a cui ha replicato il capitano in pectore (Neuer è ancora infortunato) affermando che «ora conta più trovare soluzioni piuttosto che esprimere le proprie sensazioni».
Lo spogliatoio avrebbe mal digerito anche il fatto di essere usato come pretesto per giustificare l’esonero di Nagelsmann. Su tutti Joshua Kimmich, che dal ritiro della Nazionale, in risposta alla mossa del club, aveva parlato di Nagelsmann con parole impegnative: «È uno dei tre migliori che abbia mai avuto» – vale la pena ricordare che Kimmich ha lavorato con Guardiola, Ancelotti, Flick e Heynckes, ma anche con Löw in nazionale e Rangnick ai suoi inizi a Lipsia, quindi si tratta di una dichiarazione forte. Il futuro capitano del Bayern è lo specchio di questo malcontento diffuso, una condizione che nel suo caso va oltre le prestazioni in campo, sempre di livello: «Kimmich sta vivendo la fase più difficile della sua carriera dal punto di vista mentale», ha spiegato Kerry Hau su Sport1. «Ed è preoccupato dell’evoluzione che la società sta vivendo». Uno dei principali motivi di apprensione di Kimmich è anche uno dei principali capi d’accusa mossi al Bayern Monaco: l’incapacità di riuscire a mantenere un allenatore per un periodo di tempo tale da poter aprire un ciclo. Nell’ultimo trentennio, infatti, l’unico tecnico a durare più di tre stagioni è stato Ottmar Hitzfeld, in carica dal 1998 al 2004. Per il resto nessuno supera ha resistito più di Pep Guardiola, all’Allianz per tre anni pieni – dal 2013 al 2016. Ci è andato vicino solo Magath, rimasto al Bayern due anni e mezzo. Tutti gli altri, da Flick a Van Gaal, da Heynckes ad Ancelotti, non sono andati oltre i due anni. Più che gli allenatori, insomma, sempre stati i giocatori a determinare i cicli.
Non si tratta di semplici coincidenze e di momenti. È il frutto di una filosofia, che almeno fino a un paio d’anni fa ha portato grandi risultati: la società viene prima di tutto e nemmeno il migliore degli allenatori può ergersi a uomo-immagine del Bayern Monaco. Lo ha chiarito anche Massimo Morales, vice di Trapattoni negli anni Novanta, che ha vissuto l’ambiente dall’interno: «Nessuno può considerarsi più grande del Bayern», ha detto a Tuttosport. «A Monaco la società viene prima di ogni cosa e la dirigenza si fa custode di questo diktat del ‘Mia san Mia’, ‘noi siamo noi’, in tutto e per tutto». Più che esserne custodi, però, Oliver Kahn e Hasan Salihamidzic si comportano come se ne fossero i soli rappresentanti, travalicando quel sottile confine che delimita i due concetti. Sono stati loro i primi a finire sul banco degli imputati, e a fine stagione vedranno il loro lavoro soggetto di valutazioni, a prescindere dalla vittoria o meno del Meisterschale. Si parla già di soluzioni interne come il Chief Financial Officer Jan Dreesen e il capo del campus Sauer come possibili uomini da cui ripartire. Soluzioni interne, come da sempre nello stile Bayern. Uomini che hanno il gene di cui sopra del ‘Mia san Mia’, come d’altro canto erano Uli Hoeness e Rummenigge, gli uomini che hanno dettato la linea per tantissimi anni. «La differenza», scrive Hau, «è che quando la squadra era in difficoltà, Uli e Kalle scendevano in difesa dei giocatori e anche dell’allenatore, a prescindere da tutto. Una diversità di trattamento che è percepita rispetto all’attuale gestione». Si tratta di un’opinione diffusa: nel prepartita del Klassiker di aprile vinto 4-2, un successo che aveva restituito la vetta provvisoria della classifica, Lothar Matthäus e Kahn si sono resi protagonisti di un pesante botta e risposta in diretta tv, in cui il primo accusava l’ex portiere (e compagno) di «non dire la verità» riguardo le reali motivazioni dell’esonero di Nagelsmann. Tra l’altro, esattamente due giorni prima, il presidente Hainer si era fatto intervistare dal Kicker e aveva espresso la massima fiducia e stima nel lavoro di Nagelsmann, a nome del club.
È evidente come le frizioni – interne ed esterne – siano finite sulla pubblica piazza, trasformando l’FC Bayern in FC Hollywood, come negli anni Novanta, quando però a fare notizia erano le avventure di vita notturna dei giocatori e non le contrapposizioni tra chi dovrebbe remare dalla stessa parte, dispute degne della miglior soap opera e alimentate dalla stampa di Monaco – che è una sorta di risposta bavarese alle nostrane radio romane. Ed è così che la pessima gestione mediatica, unita al tempismo e alle modalità di un cambio in panchina deciso in un momento critico della stagione e forse neanche così necessario, ha reso infernale il clima in cui Tuchel ha dovuto iniziare la sua avventura – legata per altro a un contratto più breve di un anno, scadenza 2025, rispetto a quello inchiostrato dal suo predecessore. L’ex manager del Chelsea non è riuscito a isolare la squadra dalla pressione di avere una concorrente in grado di tenerle testa e ora il dominio decennale del Bayern è più che mai in discussione. Eppure, paradossalmente, l’assenza di uno Schale in più in bacheca potrebbe essere l’ultimo dei problemi sulla lunga lista che il Consiglio di Sorveglianza sarà chiamato a risolvere, nell’estate più difficile del Bayern da almeno quindici anni a questa parte.