Ogni napoletano conosce a memoria alcuni passaggi di Massimo Troisi. Sketch della Smorfia, spezzoni dei film, momenti di televisione, battute. Uno dei più celebri è Troisi intervistato da Gianni Minà sullo scudetto del Napoli. Troisi finge di accusare Minà di averlo interpellato per ultimo, quando ormai non c’è più niente da dire sulla vittoria, perché tutto è stato già detto. E procede per tentativi: «L’hanno già detto che, a parte la squadra e Maradona, non dimentichiamo questo meraviglioso pubblico che è stato un dodicesimo giocatore in campo?», «l’hanno già detto va bene la squadra in campo ma non ci dimentichiamo l’organizzazione della società che è sempre mancata a Napoli?», «l’hanno già detto festeggiamo, ma Napoli ha mille problemi che non vanno dimenticati?», e così scherza sulle espressioni più trite e ritrite che circolano, mentre Minà non può che constatare che sono proprio tutte cose già dette e, allora, non resta altro che invitare la gente a casa a non lasciare l’acqua e il gas aperti, quello di sicuro non l’ha detto nessuno. (E, infatti, tra gli striscioni più condivisi sui social nelle feste del terzo scudetto ce ne è uno che cita proprio questa battuta sventolando da un balcone).
E anche Paolo Sorrentino ha detto qualcosa di analogo quando, a una domanda sullo scudetto si è avvalso della facoltà di non rispondere giustificandosi: «Oggi siamo felici e quando si è felici è impossibile dire cose intelligenti». Non può, dunque, non averci pensato Gianni Montieri mentre scriveva Il Napoli e la terza stagione per 66thand2nd: questo l’avranno già detto? Potrò scrivere qualcosa che non è stato già detto? Come faccio a non deludere Troisi? Ecco, qui possiamo subito dire che questo rischio non c’è. Non c’è nessun “dodicesimo uomo in campo” o “cavalcata” e men che meno “cavalcata trionfale”. Non c’è nessun “successo meritato” o “successo costruito col lavoro” o “da qui in poi sono tutte finali”, ma il racconto di un campionato in cui si è realizzata una combinazione immaginabile solo man mano che si realizzava. Il racconto è il contrario di quelle tragedie di cui conosci già il finale, ma che guardi sperando che, per miracolo, stavolta finisca diversamente. Qui non vedi l’ora di arrivare alla fine, proprio perché conosci già l’esito.
La relazione tra calcio e poesia è ormai abusata all’inverosimile. È un discorso di terza o quarta mano, incrostato dall’uso sciatto e pubblicitario. Ma Gianni Montieri ha (e non da questo libro) la grazia di restituire credibilità e veridicità alla relazione. E quando parla di Kvaratskhelia o Lobotka o Osimhen e accanto ci mette le parole di Daniele Del Giudice o di Juan Carlos Onetti non senti più il posticcio, ma torni a credere alla possibilità che pure lo sport possa toccare quel sublime lì anche se da un altro lato.
Prendiamo, ad esempio, questo passaggio: «La scrittrice cilena Nona Fernández una volta ha scritto: “Le stelle muoiono e rendono all’universo parte del materiale che le ha formate. A sua volta parte del materiale di una stella di una generazione precedente. Che a sua volta è parte del materiale di un’altra stella di una generazione più lontana. Le stelle sono fatte della polvere dei loro morti”. E i calciatori di quale polvere sono fatti? Da quale materiale depositatosi su tutti i campi da calcio del mondo – dagli sterrati di periferia a San Siro, da una spiaggia in Yucatan al Camp Nou, dai campetti dietro la chiesa a Wembley – sono formati? Poniamo che alcuni calciatori, magari tutti, siano composti da qualcosa che quelli prima di loro hanno perduto sul campo: minuscole particelle, detriti, visioni, brandelli di fantasia, vapore. Pietre, scaglie, zolle, fili, boati del pubblico. Nell’universo del calcio c’è anche parte del materiale che ha formato Anguissa, il compito nostro è stato e sarà quello di provare a capire da chi provengano quei frammenti. Qualcosa di Jean Tigana? Qualcosa di Patrick Vieira? Qualcosa di Sergio Busquets? Qualcosa di Salvatore Bagni?». L’idea panteistica che i calciatori siano fatti anche della sostanza di chi li ha preceduti non solo è magnifica e assolutamente credibile, ma sposta nel campo della poesia qualcosa che perfino la fisica ormai considera assodata.
Ed è qualcosa che, tra l’altro, vale tranquillamente anche per le stesse squadre di calcio. Perché tanti tifosi del Napoli si sono detti dispiaciuti del fatto che Mertens o Insigne non abbiano potuto festeggiare lo scudetto? Come se appartenesse anche a loro. E perché io sono sceso in strada a festeggiare lo scudetto con la maglietta di Calderón e ho trovato altri tifosi che indossavano le loro magliette di Bellucci o Schwoch o Cavani e quella sponsorizzata Buitoni del primo scudetto e quella Mars del secondo? Non sono anche le stesse squadre fatte di una sostanza che prescinde i calciatori? Una sostanza immateriale e materialissima allo stesso tempo, perché si deposita proprio nel tempo. Ciò che urlano certi ultras sull’onorare la maglia o rispettare la maglia potrà sembrarci folle perché al loro urlo si accompagnano degli atteggiamenti violenti, ma non perché sia sconclusionato in sé. Perfino quando sorridiamo di certe magliette che non soddisfano i nostri gusti estetici stiamo in realtà dando ragione all’idea che quella maglia siano tutti quelli che l’hanno indossata o che l’hanno tifata, e sia composta dei lori atomi e della loro pazienza. Questo libro restituisce bene l’illusione che le persone e le cose (e ogni tanto le vittorie) durino anche oltre il loro tempo. Per questo – ma il finale vale solo per i tifosi – chiuso il libro, lo tieni ancora in giro senza metterlo in libreria, ogni tanto l’occhio cade su Kvara e Osimhen in copertina e ricordi che è successo davvero.