De Bruyne ha bisogno di una Champions League?

Il fuoriclasse belga ha sempre meno tempo per riuscirci.

A un certo punto della finale di Fa Cup è sembrato che Kevin De Bruyne si trasformasse nelle “Forme uniche della continuità nello spazio”, una scultura futurista simbolo del movimento, della fluidità, del dinamismo. Eravamo appena oltre l’ora di gioco, De Bruyne aveva fatto uno scatto per tagliare alle spalle di Fred, due passi rapidi per arrivare al limite dell’area, un altro tocco ancora più fulmineo per anticipare Varane, per cancellargli anche solo l’idea di poter fermare l’azione, poi il tiro di sinistro gli era uscito sgonfio e troppo centrale e De Gea ci aveva messo il piede. Il centrocampista belga è uno dei migliori passatori della sua generazione, con una visione di gioco grandangolare e una purezza ultraterrena nel calciare il pallone, eppure sa decidere le partite – ogni tipo di partita, a ogni livello – con uno strappo, uno scatto o un allungo, carica i quadricipiti e brucia l’avversario che prova a stargli incollato addosso. «Se può correre e irrompere nello spazio è devastante», dice di lui Guardiola. È vero che Pep è il suo allenatore e non è uno che risparmia sui complimenti, ma ha oggettivamente ragione quando dice che, se è libero di andare in campo aperto, De Bruyne corre come se gli avversari nemmeno esistessero, si muove con una ferocia non comune per un giocatore del suo talento tecnico, attraversa le maglie degli avversari in un vortice inarrestabile. 

Nella doppia semifinale di Champions League contro il Real Madrid De Bruyne ha giocato 174 minuti in un picco costante di tensione agonistica, emotiva, psicologica. Con un senso di urgenza che forse era esasperato e fuori scala anche per una sfida così importante. Durante la partita di ritorno – una partita che non ha mai avuto una vera enfasi competitiva – è arrivato a urlare contro lo stesso Guardiola, in pratica lo ha rimproverato, forse per avergli dato indicazioni su dove giocare la prossima azione mentre lui, è ovvio, sapeva benissimo dove andare e cosa fare. È sembrato dirgli una cosa del tipo «stai zitto e lasciami giocare». Per tutta la partita dell’Etihad la sensazione più forte è stata quella di uno squilibrio tra due forze non paragonabili, non tanto e non solo sul piano tecnico, atletico, fisico, quanto a livello emotivo e competitivo. Il Manchester City, proprio come il suo giocatore migliore, ha giocato come se da quella partita dipendesse la sua vita – e in senso sportivo, almeno in parte, era così – mentre il Real Madrid non è mai riuscito a pareggiare quel livello di intensità, annichilito dai padroni di casa. 

In qualche modo deve aver inciso il vissuto delle due squadre, il passato recente e quello più remoto, a partire dalla semifinale dello scorso anno vinta dai blancos in quei minuti che sembravano una pièce pirandelliana. In realtà Guardiola lo ha ammesso dopo il 4-0 che ha riportato la sua squadra in finale di Champions: per il City questa doppia semifinale offriva l’opportunità di vendetta sul Madrid che l’anno prima avevano negato loro la possibilità di vincere. Le sue parole fanno immaginare che, da qualche parte negli spogliatoi dell’Etihad, qualcuno abbia appeso al muro una foto di Ancelotti e della sua squadra per farne un bersaglio per le freccette. Perché al City la vittoria della Champions League serve, ne ha bisogno per legittimare il suo status da superpotenza del calcio europeo nonostante i risultati eccezionali: una nuova egemonia in Premier League, una finale di Champions già giocata, lo status perenne di contender a livello continentale. Ma ha bisogno della coppa più importante per legittimarsi, per chiudere il cerchio della sua narrazione sportiva.

E lo stesso vale per il suo giocatore più forte e rappresentativo: Kevin De Bruyne, appunto. Il Telegraph dice che De Bruyne «ha già vinto molto nella sua illustre carriera, ma c’è ancora la fastidiosa sensazione che gli manchi un momento decisivo sul grande palco, un momento storico». L’unica sfasatura tra KDB e la sua squadra è temporale: il City avrà la possibilità di vincere la Champions ogni anno, il fantasista belga non può più aspettare. In un calcio in cui le competizioni nazionali sono sempre più irrilevanti e hanno sempre meno peso nel definire la legacy di un giocatore, vincere la competizione europea più importante è un obiettivo di cui non si può fare a meno. Soprattutto se sei Kevin De Bruyne, cioè uno dei giocatori più forti e speciali di questo decennio. 

Da quando è arrivato al Manchester City, nell’estate 2015, Kevin De Bruyne ha messo insieme 355 partite e 96 gol in competizioni ufficiali (Michael Regan/Getty Images)

A fine giugno il capitano del City farà 32 anni, un’età per cui il margine d’errore si assottiglia: non può permettersi di invecchiare e diventare meno determinante prima di aver raggiunto il suo obiettivo. È vero, oggi è in una condizione eccezionale, evidentemente tirato a lucido da scienze e tecnologie che stanno allungando la carriera di molti atleti in tutto il mondo e in tutti gli sport. E verosimilmente andrà a cento all’ora anche l’anno prossimo e quello dopo. Ma presto entrerà in quella fase della carriera in cui – per motivi anagrafici, biologici, umani – basta un piccolo infortunio, un contrattempo, un passo falso per dimezzare la potenza del motore. E quindi è possibile che, tra qualche anno, KDB non dipenda più da sé stesso, che non possa più caricarsi sulle spalle le sorti e il destino di una squadra con le ambizioni e le esigenze del Manchester City. Eccolo il senso d’urgenza apparentemente inspiegabile.  

La prospettiva è quella di entrare in quel circolo di atleti di cui il Chris Paul del basket è presidente onorario, manager e capitano in campo: per una serie infinita di coincidenze che non c’è bisogno di descrivere qui, uno dei migliori playmaker del XXI secolo non ha mai vinto un titolo. Ora lo ricerca in tutti i modi, ma le ultime stagioni hanno testimoniato come CP3 non possa più essere il primo violino in una squadra che vuole vincere la NBA. Il suo approccio adesso è quello del facilitatore, quello che mette la ciliegina sulla torta, una torta che però fanno gli altri – Kevin Durant e Devin Booker nell’ultima corsa playoff interrotta piuttosto presto, adesso è stato tagliato e ha già detto di «voler aiutare una squadra a vincere un titolo». In una puntata recente del The Pivot Podcast, Chris Paul ha difeso con buone ragioni i risultati eccezionali ottenuti in carriera, e ha detto che la pressione arriva soprattutto dall’esterno, ricordando quanto la ring culture sia oppressiva non solo per lui, ma anche per le persone che lo circondano, persino per sua figlia più piccola. 

A novembre, in una delle rare interviste lunghe e riflessive concesse durante la carriera, De Bruyne ha detto al Guardian che, secondo lui, vincere la Champions non è così importante: «Sarebbe bello, ma penso che lo sia più dall’esterno. È soprattutto uno strumento nelle mani di altre persone, che possono così bastonare il City». Le sue parole nascondono una certa fretta, una necessità che non può essere ignorata, per questo oggi De Bruyne gioca come uno che ha ancora tutto da conquistare, partita dopo partita, giorno dopo giorno, con un senso di urgenza e quel fuoco di chi vuole ancora prendersi il mondo – come se fosse un venticinquenne nell’inizio del suo prime e non un ultratrentenne già destinato a essere uno dei volti di questa generazione quando questa generazione passerà alla storia. Sabato avrà il suo match ball, un altro dopo quello del 2021. Di fronte ci sarà l’Inter, una squadra che arriva in grande condizione. E ci sarà anche Simone Inzaghi, ovvero un allenatore che, se dovesse giocarsi vita o morte a Las Vegas, sceglierebbe sicuramente di farlo in una finale di coppa. Però è forse la squadra più sorprendente arrivata in finale Champions negli ultimi dieci anni. E De Bruyne non può farsi sfuggire (anche) quest’occasione.