Silvio Berlusconi non voleva solo vincere, ma cambiare il calcio

Quando si prese il Milan gli credevano in pochi. Ci mise molto barocco, grandi capacità, intuizioni felici. Impossibile un giudizio pacificato, ma i trofei rimarranno.

Nella rubrica delle lettere di Gianni Brera, a metà degli anni Ottanta, il signor Terenzio scrisse: «Da quando il signor Berlusconi ha inventato i posti numerati, ho smesso anche di frequentare San Siro». È una delle tante frasi tipo che negli ultimi quarant’anni hanno riguardato Silvio Berlusconi. C’è chi non ha comprato più alla Standa, chi non ha più seguito le reti Fininvest dopo il suo ingresso in politica. A sinistra ci fu anche un dibattito, ai tempi della sua discesa in campo, sull’opportunità di rimanere tifosi del Milan con un presidente così. Eppure di disertori rossoneri non se ne ricordano. Le cinque Coppe dei Campioni invece sì, al pari di un’aura leggendaria, uno dei cicli vincenti più lunghi di sempre. Le parabole di Berlusconi sono sempre state molto simili, in qualsiasi campo: ingressi in pompa magna, per alcuni manie di grandezza, risatine di derisione degli addetti ai lavori, sconvolgimento dello status quo, un gruppo ristretto di lavoro basato su un rapporto di fedeltà assoluta e soprattutto una fede incrollabile nelle proprie idee e nella propria visione. Cui va aggiunta una gestione rivedibile del proprio declino.

Una delle prime novità dell’avventura calcistica fu appunto la numerazione dei posti di San Siro, che proprio non andò giù al signor Terenzio. Lui, il Cavaliere, ai tempi la raccontò così: «In tempi strettissimi siamo riusciti a convincere l’Inter e il Comune a dotare l’anello inferiore di San Siro di poltroncine numerate, abbiamo usato un nuovo programma software per trovare la banca idonea per gli abbonamenti. Stiamo studiando un biglietto computerizzato per la prenotazione di partite anche a lunga gittata. E attraverso il telefono quest’anno si sono abbonati oltre duemila tifosi milanisti».

Era il settembre dell’86. La prima stagione da presidente del Milan di Silvio Berlusconi. Il mondo del calcio trattò con sufficienza il suo ingresso nel mondo del pallone, nelle redazioni si davano di gomito quando lo videro arrivare alla presentazione della squadra con gli elicotteri – tre – al suono della Cavalcata delle valchirie. Un’irruzione fragorosa nell’Italia calcistica anni Ottanta abituata a commentare per giorni le battute dell’Avvocato tra il primo e il secondo tempo, che si sfogava e magari divertiva a quel bar sport nobilitato che era Il Processo del Lunedì. Berlusconi veniva deriso per le sue pacchianate e le uscite da signor sotuttoio. Nella prima estate presidenziale, dopo una sconfitta per 3-1 in amichevole a Barcellona, polemizzò per la crostata nel menù. «Un Milan competitivo non può mangiare dolci», disse. «Ci vuole subito un dietologo», ordinò. E i commenti furono: ora capisce anche di alimentazione.

Nel gennaio del 1987, Gianni Mura lo definì deludente: «La delusione nasce dal paleocapitalismo, in campo calcistico, che Berlusconi ha profuso. Al calcio italiano, a chi s’aspettava molto o qualcosa di buono, Berlusconi finora ha fornito un cattivo esempio». Quasi lo prese in giro per i soldi spesi per Massaro («A Firenze ancora si danno i pizzicotti pensando ai sette miliardi per Massaro») e ampliò i confini del suo scetticismo anche al futuro: «Né lo aiutano le voci di mercato, Borghi (preso solo per fare un dispetto a un concorrente berlusconiano), Van Basten, Gullit, Borgonovo. È una strategia costosa, ma quanto pagante? E, soprattutto, quanto di nuova imprenditorialità dimostra? Zero. Basta avere un bel libretto d’assegni, ma il calcio non è una pinacoteca e nemmeno una trasmissione di varietà, dove uno fa il suo numeretto e se ne va, e quindi non basta comprare i pezzi pregiati (o presunti tali) per vincere lo scudetto».

Nemmeno Mario Sconcerti rimase folgorato: «Si discute molto sull’intempestività di alcuni suoi interventi, del suo improvviso black out, e di una certa pesantezza con cui si starebbe muovendo tra i cristalli del calcio. Non c’è dubbio che Berlusconi abbia sbagliato quasi per intero il suo approccio col calcio. (…) Il suo mestiere è fare il padrone nel senso totale del termine. Ed è questo credo il suo piccolo “dramma”. Per la prima volta nella sua vita si ritrova ad aver puntato molto su un’azienda in cui non può praticamente mettere bocca. Per dieci mesi l’anno il Milan è un fatto tecnico, non può avere nessuno altro ispiratore che un tecnico».

È un breve compendio dell’accoglienza che l’Italia del pallone e dei media riservò a Berlusconi. Un mondo naturalmente diffidente nei confronti di qualsiasi novità, figuriamoci se boriosa. Il Cavaliere venne più o meno considerato come uno sceicco stupido che avrebbe scialacquato il proprio denaro. La versione meneghina dell’emiro del Kuwait che nel Mundial 82 scese in campo e fece annullare una rete della Francia. In realtà un episodio simile avvenne davvero, a Marsiglia, in Coppa dei Campioni, il 20 marzo del 1991. Quando quasi al termine di una partita in cui il Milan era stato dominato (ed eliminato) dalla squadra di Tapie, saltò un riflettore. E Galliani scese in campo ordinando alla squadra di ritirarsi, di non proseguire perché non c’erano le condizioni per giocare. Fu la serata più triste dell’era Berlusconi. Il club la pagò con un anno di esclusione dalle coppe, Galliani si assunse tutta la responsabilità e si immolò. La fedeltà è un passaggio chiave.

Berlusconi comprò il Milan nell’inverno del 1986, in totale 25 miliardi di lire. Il primo anno fu di assestamento, con Nils Liedholm in panchina e un bel po’ di soldi sprecati, come ad esempio gli acquisti di Galderisi e Bonetti. Immediata la rottura con Gianni Rivera. Le presentazioni hollywoodiane, le dichiarazioni roboanti. Eppure la nitida fotografia della differenza di visione tra Berlusconi e gli altri fu scattata quando il Milan toccò il punto più basso della sua stagione e forse gestione: la sconfitta a San Siro, con conseguente eliminazione, in Coppa Italia contro una squadra di Serie B: il Parma. Era l’inverno del 1987. Mentre critica e tifosi erano intenti a impallinarlo, lui rimase folgorato dall’allenatore che aveva dominato i rossoneri. Uno sconosciuto di Fusignano. Berlusconi decise. Per realizzare le sue ambizioni di grandeur, avrebbe messo la sua creatura nelle mani di un signor nessuno: Arrigo Sacchi. Mai stato calciatore. Mai allenato in Serie A.

Il resto è storia, come dicono coloro i quali amano maramaldeggiare con classe. In conferenza di presentazione, nel lontano 1987, Righetto disse: «Perché ha scelto me? Mi sono dato tre risposte: uno, ho avuto fortuna; due, gli è piaciuto il gioco del Parma; tre, nello sport parliamo la stessa lingua». Berlusconi non solo gli affidò il Milan ma lo difese strenuamente quando sembrò chiaro che lo spogliatoio stesse abbandonando al suo destino quello sconosciuto tanto ambizioso e innovativo quanto arrogante, maniacale e insopportabile. Arrivò il celebre discorso di Verona quando scese negli stanzoni dello stadio e disse chiaro e tondo: «Qualcuno di voi forse l’anno prossimo non ci sarà, Sacchi invece sì».

Anche se ai detrattori non va giù, è stata questa (ancor più che il denaro) la vera forza di Berlusconi: la ferma convinzione nelle proprie idee e nelle proprie scelte. La capacità di non tradire la propria visione anche quando gli eventi sembravano remare in direzione contraria. Col senno di poi, gli sarebbe stata una virtù utile anche da politico. Allora, fu sufficiente alla semina per la nascita di una squadra che ancora oggi è definita da tanti la più forte di tutti i tempi. Quella che approfittò del primo ammutinamento della storia del Napoli e vinse il campionato giocando quasi sempre senza Van Basten infortunato e operato. Il grande Milan nacque così. Era il Milan di Gullit sì, come di Baresi, Maldini e Donadoni. Ma anche di Evani e Angelo Colombo, di Filippo Galli e Tassotti come di Virdis: calciatori che fino a quella stagione nessuno aveva preso più di tanto in considerazione.

Il 3 maggio 1988, due giorni dopo il sorpasso a casa di Maradona, per Repubblica Giorgio Bocca raccontò quale Milan fosse in strada a festeggiare: «La Milano dei “casciavit” arricchiti dal terziario e acculturati dalla televisione di cui il presidentissimo del Milan Silvio Berlusconi è oggi l’indiscusso idolo e nel cui nome il popolo milanista compie le sacrosante vendette: “Hai qualcosa da dirmi, Lino? Non eri tu che dicevi che il Silvio aveva speso male i suoi soldi?”. “Ehi, baluba, come la mettiamo con il Sacchi? Non dicevate che non sarebbe arrivato a mangiare il panettone?».

Come presidente del Milan, Silvio Berlusconi ha vinto: otto scudetti, cinque Coppe dei Campioni/Champions League e tre Coppe Intercontinentali/Mondiali per club, solo per restare ai trofei minori (Olivier Morin/AFP via Getty Images)

Anticipando di quarant’anni Jep Gambardella e il suo potere di far fallire le feste, Berlusconi non voleva solo vincere, voleva vincere giocando un calcio che sarebbe passato alla storia. Facendo sì che alla propria immagine venisse associata quella di una squadra imperiale. E così fu. Il passaggio di consegne avvenne nella semifinale di Coppa dei Campioni 88-89 contro il Real Madrid. Due partite dominate: 1-1 al Bernabeu e 5-0 a Milano. Una delle umiliazioni più cocenti mai subite dai madrileni in Europa. Era nato il grande Milan, il Milan leggendario. Tutta l’Europa si accorse di Silvio Berlusconi. Che, ancora una volta, anticipò tutti. Capì prima di chiunque altro che quel calcio di Sacchi sarebbe stato irripetibile. I giocatori non ne potevano più. E quando l’Arrigo, dopo aver vinto anche la seconda Coppa dei Campioni, entrò nella sua stanza e gli disse: “O me o Van Basten”. Lui, il Cavaliere, sfoderò uno dei suoi sorrisi e con l’occhio scintillante accompagnò alla porta l’uomo di Fusignano, non senza sentiti e profondi ringraziamenti. È vero che nell’immaginario collettivo il Milan di Berlusconi resta soprattutto quello lì, il primo. Ma è altrettanto vero che il presidente ha continuato a vincere anche con altri allenatori e che invece Sacchi nel resto della sua breve carriera non avrebbe vinto più nulla.

I tre grandi Milan della storia berlusconiana hanno avuto tre allenatori tutti più o meno inventati da Berlusconi: Arrigo Sacchi e Fabio Capello senza dubbio. Ma anche Carlo Ancelotti, che arrivò al Milan con più esperienza rispetto agli altri due ma con la scarsa invidiabile immagine di magnifico perdente. La struttura societaria, come detto, era basata su vincoli che andavano oltre la professionalità. Adriano Galliani. Silvano Ramaccioni. Ariedo Braida. Grandi conoscitori di calcio. E legati a un patto di fedeltà assoluto al grande capo. Che dalla fine del ’93 in poi seguì più da lontano le vicende della sua creatura. A quella prima fase ne seguirono altre. Ci fu l’affare Lentini. Ci fu la fase imperialistica, con l’acquisto di calciatori solo per sottrarli agli avversari. Come ad esempio Fernando De Napoli, ma non solo. Fase che terminò anche per motivi di opportunità politica: sottrarre Totti a Roma, ad esempio, sarebbe stato costato non poco in termini di consenso elettorale nella capitale. Restarono alcune grandi intuizioni come quelle di Pirlo, Seedorf, Kaká. È inutile cercare unanimismo su Berlusconi, il giudizio non sarà mai pacifico né pacificato. Neanche nel calcio. A meno che non parliate con qualche tifoso del Milan. Lo troverete con gli occhi lucidi e tutto sarà più chiaro.