Le seconde squadre spagnole non funzionano più

Da diversi anni Real e Barça non riescono a tornare in Segunda División, ma questo è solo un aspetto della crisi.

Qualche giorno fa il Real Madrid Castilla ha perso contro l’Eldense nei – lunghissimi, interminabili – playoff della Primera RFEF, la terza divisione del calcio spagnolo. Detta così non sembra una notizia sensazionale, se non fosse che, a causa di questo risultato, la seconda squadra del Real Madrid – o anche squadra filiale, mutuando la dicitura spagnola equipo filial – non è riuscita a tornare in Segunda División per la nona stagione consecutiva – l’ultima retrocessione risale infatti al 2014. Nel frattempo tutte le squadre filiali che hanno raggiunto la seconda serie della piramide spagnola, vale a dire Barcelona B, Sevilla Atletico, Bilbao Athletic, Real Sociedad B e Villarreal B, non sono andate oltre una veloce comparsata: solo il Barça è riuscito a mantenere la categoria per cinque anni, tra il 2010 e il 2015, ma dal 2018 è fermo in terza divisione; tutte le altre sono retrocesse tutte dopo una o al massimo due stagioni, non a caso nella prossima edizione del campionato ci sarà soltanto il Villarreal B.

Insomma, rispetto a trenta o quaranta anni fa la situazione è cambiata radicalmente. E in modo negativo. Soprattutto per le seconde squadre delle big, che negli anni Ottanta e Novanta arrivarono diverse volte a vincere il campionato – ma ovviamente non poterono accedere alla Liga, visto che il regolamento non permetteva e non permette che ci siano due emanazioni di una società nella stessa categoria. Il quotidiano El País ha raccontato questa crisi in modo approfondito: «Le squadre B di Barça e Madrid sono finite in testa per tre stagioni consecutive di Segunda Divivión (1983, 84 e 85), e pochi anni prima (1980) il Castilla aveva disputato la finale di Copa del Rey e si era qualificato alla Coppa delle Coppe. La differenza rispetto a oggi sta nel modo in cui si fa mercato, nei cambiamenti imposti dalla sentenza Bosman del 1995».

A chiamare in causa la Bosman, che viene sempre fuori ogni volta che si parla delle trasformazioni subite dal calcio, spesso anche a sproposito, è stato Miguel Pardeza, 58enne calciatore cresciuto nel Real Madrid con una lunga militanza nel Castila, poi direttore sportivo del Real tra il 2008 e il 2014: «Quello che è successo con Bosman ha stravolto il concetto stesso di seconde squadre: prima in Liga c’era molto spazio per i giocatori spagnoli, poi sono arrivati tantissimi stranieri e quindi i calciatori locali hanno perso quel tipo di centralità. L’unica via d’uscita era scendere di categoria, e quindi i giovani hanno dovuto retrocedere a loro volta, visto l’aumento complessivo della competitività».

Non è solo una questione di giovani e di sviluppo del talento, però: Pedraza spiega che «ai miei tempi nelle filiali militavano giocatori di una certa età, non solo giovanissimi come adesso. Il turnover era più lento, occorreva trascorrere diversi anni nelle serie inferiori prima di poter giocare in Liga. Ora invece i calciatori non vogliono continuare a giocare nelle squadre B se possono passare al calcio professionistico». La conseguenza è che le seconde squadre di oggi hanno una configurazione diversa, è come se fossero la “rappresentativa senior delle giovanili”, e questo le rende inevitabilmente meno forti rispetto agli avversari, a rose costruite per centrare la promozione in Segunda. Paco Herrera, il terzo allenatore con più panchine in Segunda División (362), conferma questa sensazione: «Le squadre B iniziano la stagione con dei ragazzi che sicuramente non sono ancora pronti per la promozione. A fine anno, questi stessi ragazzi sono maturati e potrebbero lottare davvero per salire di categoria, se non fosse che il club decide di inserirli in prima squadra o di cederli, che sia in prestito o a titolo definitivo».

Insomma, le rivoluzioni degli Anni Novanta – e i loro strascichi regolamentari ed economici – continuano ad avere un impatto. Non è per forza una cosa negativa, ed è lo stesso Pardeza a spiegare perché: «Un tempo era impensabile che un ragazzo di 17 anni potesse esordire in Liga o in Segunda. Oggi c’è meno paura, gli allenatori e i dirigenti sono molto più coraggiosi. È anche un incentivo per lo stesso tecnico della prima squadra, che ha più controllo sulla cantera, sulle giovanili. In passato puntava solo sulla rosa della prima squadra, e, se aveva bisogno di rinforzi, poteva rivolgersi solo al mercato. Oggi si può pianificare il futuro in maniera più sostenibile, senza passare per forza dalle seconde squadre». È questa, forse, la vera lezione di questa storia: le squadre filiali, uno dei simboli del modello spagnolo, non funzionano più come una volta. Ed è così perché, semplicemente, non possono farlo. Se questo è un bene o un male, sarà il tempo a dirlo.