La Champions League è élite non soltanto perché raggruppa il meglio che il calcio europeo abbia da offrire, ma soprattutto per il suo carattere spietato ed esclusivo. Ogni carriera, ogni ciclo, per quanto vincenti e unici, si dovranno scontrare con la gigantesca portata mitologica di questo torneo, imprevedibile come tutti i grandi eventi a eliminazione diretta, e la loro percezione sarà – quasi sempre ingiustamente – filtrata dai loro risultati. Allo stesso tempo, la Champions League è anche l’ascensore sociale più immediato nel calcio di club. E quindi, come marchia in negativo carriere straordinarie, può svoltarne altre in positivo solo con una manciata di partite. Abbiamo scelto sei giovani giocatori per cui questa edizione sarà un passaggio fondamentale, chi per proiettarsi nella dimensione dei top club, chi per non perderla, chi per sorprendere tutti e bruciare le tappe.
Xavi Simons (RB Lipsia, 2003)
A 14 anni era il capitano della sua categoria giovanile al Barça, aveva già 700mila follower su Instagram e alcuni, visto che giocava da centrocampista centrale, lo paragonavano a Busquets. Il suo nome, scelto apposta dal padre tifoso blaugrana, è sempre stato una gigantesca molotov di aspettative pronta a scagliarsi sul calcio professionistico. Alla fine, l’impatto di Xavi Simons è stato esplosivo e quest’anno giocherà la prima Champions League della carriera. Lo farà con il RB Lipsia, la squadra in cui, dopo l’esplosione al PSV, ha scelto di proseguire un percorso di crescita graduale. L’olandese, appena ventenne, è un centrocampista offensivo che sa fare praticamente tutto: ha una straordinaria pulizia tecnica nei fondamentali, un controllo orientato abbinato a un primo passo che lo rende difficilissimo da prendere quando riceve palla anche con l’uomo alle spalle (una dote indispensabile per giocare sulla trequarti).
È molto dinamico sia con la palla che senza, sa andare in progressione con efficacia ma anche inserirsi e fare un lavoro utile in pressione. Anche se nella seconda metà della scorsa stagione (chiusa con 22 gol totali) ha dimostrato di possedere un buonissimo dribbling e, in generale, un talento abbastanza autosufficiente da poter mettere sottosopra l’Eredivisie anche da ala sinistra, l’impressione è che con la precisione con cui gestisce palla e fraseggia nello stretto, il moto perpetuo e l’istintività con cui offre immediatamente una nuova linea di passaggio, per continuare a giocare di prima o a due tocchi e far progredire l’azione, possa crescere meglio sfruttando le sue doti associative e la naturalezza con cui genera connessioni, quindi rimanendo in posizioni centrali, nel cuore del gioco della sua squadra, senza defilarsi troppo né forzarsi a fare tutto da solo.
Manuel Ugarte (Paris Saint-Germain, 2001)
L’Uruguay sta continuando a produrre più talento di quanto sarebbe ragionevole aspettarsi da un Paese grosso quanto la Toscana. Con l’ultima grande stagione allo Sporting, Manuel Ugarte ha confermato di essere qualcosa di più di un elemento in linea con il buon livello della Celeste, qualcosa di pericolosamente simile agli Araujo, ai Valverde e ai Núñez. Nel 3-4-3 di Amorim ha ricoperto il ruolo dell’interno con più responsabilità senza palla (quello che era di Palhinha e che ora è di Hjulmand, per intenderci), a fianco di un compagno più a suo agio con il pallone tra i piedi. L’aspetto più impressionante del suo calcio è l’impatto fisico che ha sulle partite, anche al di fuori del campionato portoghese: in Europa League, contro l’Arsenal, ha dominato a centrocampo come se fosse lui il mediano di un top club di Premier League.
Nei duelli corpo a corpo è ruvido, ma intelligente nell’usare il fisico, ama andare in tackle, ha il passo e la resistenza per scivolare di continuo e rapidamente dove si creano i buchi, mettere pezze in transizione, ribaltare il campo in conduzione, mangiare l’avversario in pressione. Il PSG lo ha scelto per ricostruire un centrocampo che, dopo undici anni, sarà orfano di Verratti e del suo lavoro senza palla: pur arrivando da una mediana a due, nelle prime uscite in Ligue 1 ha già dimostrato di essere sufficientemente ordinato con la palla e intelligente e aggressivo senza per fare il vertice basso nel gioco di posizione di Luis Enrique – già entusiasta di lui. È un ruolo molto delicato, ma sembra essere in buone mani.
Santiago Giménez (Feyenoord, 2001)
Nato a Buenos Aires ma trasferitosi in Messico quando tre anni per seguire suo padre Christian, ex centrocampista argentino che ha giocato lì gran parte della sua carriera, Giménez è uno degli attaccanti più in forma d’Europa. Dopo essere esploso in Europa League, si è preso il posto da titolare e ha trascinato il Feyenoord alla vittoria dell’Eredivisie. In attesa del debutto in Champions, ha già segnato sei reti nelle prime partite stagionali. Il rapporto con il gol è l’aspetto più importante del suo profilo tecnico: in circa un anno ha segnato 29 volte, dimostrando una grande varietà di soluzioni. Sa fare gol di mancino in diversi modi, sia da breve che da media distanza, sia di potenza che di precisione, cercando l’angolo, sia creandosi da solo lo spazio per calciare che di rapina.
Niente male come prima stagione in Europa
Da un certo punto di vista, è un nove abbastanza tradizionale: il fisico è asciutto ma comunque strutturato, ha uno stacco esplosivo e una buonissima coordinazione del corpo che gli consentono di segnare tanto anche di testa, si spende per resistere nei duelli spalle alla porta ma non è particolarmente propenso ad alimentare la manovra. La cosa che sa fare meglio fuori area è lanciarsi in conduzione, attirando a sé gli avversari per farli fuori con sterzate e allunghi; a questo proposito, la sua tecnica di base nella gestione della palla è tutt’altro che scadente, anzi, molto spesso prova giocate complicate nello stretto per crearsi l’angolo di tiro, andando incontro sia al rischio di imbottigliarsi che a reti bellissime. Per diventare un top dovrà necessariamente sviluppare anche le sue doti associative, ma già ad oggi è un finalizzatore con enormi prospettive.
João Neves (Benfica, 2004)
La cessione di Enzo Fernández a metà della scorsa stagione ha tolto al Benfica la sua risorsa più importante per continuare a esser la mina vagante in Champions League anche in primavera, ma ha accelerato l’inserimento in prima squadra dell’ultimo talento uscito dal centro di Seixal. João Neves ha iniziato ad assaggiare il campo in inverno, poi ha giocato per intero le ultime sei di Liga e ora sembra aver rubato a Florentino Luis il posto in mediana a fianco di Kökçü. È un centrocampista molto giovane e molto portoghese, apparentemente leggero ma con un baricentro basso che lo aiuta a proteggere palla nello stretto, resistere in progressione e vincere contrasti. Ha un tocco morbidissimo nei controlli e nei lanci, nei movimenti e nel modo di girarsi è meno elettrico di un giocatore simile come Vitinha, ma condivide con lui la tendenza ad alimentare il possesso e controllare i ritmi, piuttosto che forzare giocate in verticale.
Una squadra come il Benfica di Schmidt, che cerca il dominio e avvicina molti giocatori intorno al pallone per favorire gli scambi nel breve, sembra l’ambiente ideale per un centrocampista particolare come lui: non è ancora un regista, anche se aiuta sempre in uscita, non è un vero rifinitore, anche se ha sensibilità e visione per cercare spazi alle spalle dei difensori. Ad oggi sembra più un ottimo palleggiatore e preferirlo a Florentino significa accettare di perdere un po’ di intensità senza palla per guadagnare un controllo più profondo delle partite attraverso le sue doti di passaggio. Un girone così ricco di squadre aggressive sarà un gran test per le sue qualità.
Take Kubo (Real Sociedad, 2001)
Soltanto domenica scorsa ha giocato una partita straordinaria contro il Real Madrid, la squadra a cui apparteneva fino a un anno fa e che tutt’ora ha una prelazione sul suo acquisto, osando persino infliggere un tunnel secco a Toni Kroos. Take Kubo ha 22 anni ed è il leader tecnico della Real Sociedad, una corona che fino a pochi mesi fa stava sulla testa di un altro giocatore di sangue – almeno per metà – giapponese come David Silva. Ci è arrivato compiendo un percorso lunghissimo in senso letterale, rimbalzando in vari momenti della sua formazione tra Giappone e Spagna, e allo stesso tempo faticando a esprimersi con continuità durante i prestiti a squadre troppo povere tecnicamente o rigide tatticamente per esaltarlo. Alla Real Sociedad ha trovato un contesto molto organizzato, ma che rispetta il talento dei suoi giocatori: dallo scorso anno ha iniziato a migliorare a ritmi vertiginosi, facendo diventare consuetudine ciò che prima mostrava sotto forma di lampi, e tutt’ora sembra ancora in crescita.
Kubo ha volto e fisico da adolescente, un baricentro basso che lo rende imprendibile come un’anguilla e una sensibilità tecnica fuori dall’ordinario. Il suo modo di stare in campo è sfrontato e iperattivo: preferisce partire da destra per rientrare e sfidare di continuo i difensori in uno-contro-uno, cercare giocate risolutive col mancino, calciare da fuori e rifinire, ma allo stesso tempo il suo istinto associativo lo porta ad avvicinarsi ai compagni per scambiare nello stretto, generare continue connessioni e creare spazi che sfrutta anche inserendosi senza palla. In una squadra che parla la sua stessa lingua, a livello tecnico, non è diventato soltanto il suo game changer e una delle sue migliori fonti di gioco, ma anche uno dei giocatori più divertenti che vedremo in questa edizione di Champions.
Elye Wahi (Lens, 2003)
Dopo una stagione da 19 reti in Ligue 1 con il Montpellier, Elye Wahi sembrava destinato a finire nella centrifuga di talento offensivo male assortito del Chelsea, ma alla fine ha optato per un passaggio intermedio come il Lens. La garanzia di non perdere minuti – oltre che di debuttare in Champions League – sembra la condizione decisiva per vedere crescere ulteriormente una delle giovani punte più interessanti d’Europa. Wahi è un attaccante rapido, agile e tecnico, attratto magneticamente dalla profondità, con un eccellente fiuto del gol. Il suo calcio è istintivo, a volte pure acrobatico, fatto di conduzioni, di duelli in dribbling, scivolando spesso sulla fascia, ma i suoi tanti lampi individuali non rubano spazio a una tendenza altrettanto naturale a fraseggiare con la squadra.
Per molti, il fatto che Wahi abbia scelto il Lens è uno spreco
Non è per nulla egoista, anzi: prova sempre a premiare i compagni meglio posizionati, ad alimentare il flusso del gioco, anche se – pur possedendo un bagaglio tecnico all’altezza e ben assortito – risulta ancora un po’ acerbo nell’esecuzione di alcune giocate da regista offensivo. Questa propensione allarga i confini del suo potenziale, che già oggi è tangibile per la varietà di soluzioni che ha a disposizione: con la sua completezza, per quanto ancora da sgrezzare, sembra un giocatore modellato per fare il centravanti ai massimi livelli.