La notte in cui Cesc Fàbregas fece piangere la Juventus

Un estratto di Ma che Coppa abbiamo noi, il nuovo libro di Giuseppe Pastore edito da 66thand2nd.

Il problema di chi domina i campionati è che poi, quando arriva la primavera, l’ambiente inizia a dare per scontato ciò che scontato non è e non dovrebbe mai essere. Un vantaggio in doppia cifra sul secondo posto sembra l’ordinaria amministrazione, mentre invece il tifoso non è mai soddisfatto, ha voglia di sognare, con quello che paga! E sogna, anzi pretende la Champions League, non comprendendo – oppure comprendendo benissimo – che si tratta proprio d’un altro sport, soggetto al caso e agli episodi molto più che una maratona di 38 chilometri. È l’impiccio su cui una volta di più inciampa la Juventus 2005/2006, allenata da un formidabile esecutore di maratone, per sua peculiare forma mentis molto meno addestrato a parare e rispondere ai colpi del destino. Più cinico e baro che mai, il destino sorride a trentadue denti alla Juventus durante gli ottavi di finale. Le è toccato in sorte il Werder Brema, in versione molto più spericolata e zemaniana dei loro cugini maggiori degli anni Ottanta, arcigni e brutali, che tanto avevano fatto penare Van Basten e Maradona. Nonostante una fase difensiva – per citare la celebre sentenza dell’Avvocato su Maifredi – molto emozionante, il Werder rimane avanti nel punteggio fino a due minuti dalla fine del match di ritorno, quando gli si abbatte tra capo e collo l’incredibile errore del portiere Wiese, che va in presa su un cross di Nedvěd, si rotola per terra e perde il possesso del pallone; «Puma! Puma!» urla Cannavaro per richiamare l’attenzione di Emerson, lestissimo a mettere il pallone nella porta incustodita (il povero Wiese, a lungo segnato dal rimorso di quell’errore, diventerà poi un wrestler professionista con il ring name di «The Machine», ma non divaghiamo).

Sabato sera 25 marzo 2006 va in scena lo Juventus-Roma più loffio degli ultimi tempi, sgonfiato dall’ossessiva attesa del quarto di finale. Zeppa di riserve, ben poco motivata dal Delle Alpi in solita versione freezer, la Juve si limita a un pareggino di comodo che le fa conservare otto punti di vantaggio sul secondo posto. Ma, dicevamo, il destino: perché dopo un quarto d’ora Del Piero si è fatto male alla coscia sinistra proprio quando andava preservato in una teca, e perché quel giorno sulla South Coast inglese si abbatte il diluvio universale e l’Arsenal, in trasferta a Portsmouth, trova il terreno di gioco di Fratton Park del tutto impraticabile. Novanta minuti di relax, manna dal cielo in vista di gara-1 a Highbury del martedì sera. Non che ne abbiano troppo bisogno: tra le otto qualificate ai quarti i Gunners sono la squadra con l’età media più giovane, ulteriormente abbassata dalle assenze per infortunio di Ashley Cole, Sol Campbell e dell’elettrico assaltatore Ljungberg di cui la Juventus ben si ricorda dal 2001.

La formidabile creatura calcistica costruita da Arsène Wenger prima attorno al genio di Dennis Bergkamp e poi ruotando i pezzi di una scacchiera francese – pedoni, torri, alfieri e re, su tutti la triade composta da Thierry Henry, Robert Pirès e Patrick Vieira – ha imboccato una lievissima parabola discendente. Per due motivi: le conseguenze della gratitudine che il mondo Arsenal dovrà a Wenger (e il peggio deve ancora venire, visto che Wenger resterà alla guida dell’Arsenal fino al 2018, ben oltre il limite dell’umana sopportazione) e il sorpasso in tromba dello strapotere economico di Roman Abramovich e dei nuovi ricchi che invaderanno la Premier League presto o tardi. Tuttavia, sono ancora capaci di splendide jam-session come quella in cui la Juventus ha la sfortuna e il privilegio di imbattersi la sera del 28 marzo 2006.

È l’ultima notte italiana nel vetusto Highbury, impianto affascinante e claustrofobico che chiuderà i battenti due mesi dopo per lasciare spazio al modernissimo Emirates Stadium, impersonale come una corsia d’ospedale. Qui eravamo entrati nella storia il 14 novembre 1934, quando gli azzurri di Vittorio Pozzo avevano salvato l’onore in inferiorità numerica e si erano guadagnati dalla nostra adorante stampa nazionalistica l’appellativo di «leoni di Highbury». Leonina, la Juve non lo è nemmeno un po’: s’immagina di poter giochicchiare in quella bolgia come un gatto con il gomitolo, tiene il pallone, ogni tanto prova a lanciarlo verso Ibrahimović senza che le ritorni mai indietro. L’illusione di poter controllare la partita dura appena un quarto d’ora, il tempo che serve ai Gunners in versione rabberciata (soprattutto in difesa, con il rude Flamini improvvisato terzino sinistro) per ricompattarsi attorno al frangiflutti Gilberto Silva e al genio e alla freschezza di Francesc Fàbregas Soler, per tutti Cesc, per Vieira «l’uomo che mi ha fatto andare via dall’Arsenal». Deve ancora compiere 19 anni, questo ragazzino dal genio forgiato nella Masia barcellonista, che porta a scuola l’ex maestro Vieira e un altro califfo del ruolo come Emerson. Proprio una palla persa da Vieira, in uno di quegli incroci del destino di cui le notti di Champions traboccano, è il fiocco di neve che dà inizio alla valanga: proprio lui, che in otto stagioni all’Arsenal aveva svelto decine di palloni ai mediani altrui, viene borseggiato dal vecchio partner in crime Robert Pirès.

Con la velocità d’azione di un Jean-Paul Belmondo, la trama del noir arriva a dama in tre secondi: Fàbregas irretisce Thuram e vince il duello con Buffon infilandolo sul primo palo con un destro in controtempo. Nelle sue ostentate mire alla conservazione dello 0-0 come se fosse un’antica anfora etrusca, la Juve di Capello ne risulta piuttosto suonata, e il fischio dell’intervallo ha l’effetto della campanella di fine round. I primi venti minuti della ripresa sono i peggiori dell’intero biennio capelliano e purtroppo – ma non casualmente – coincidono con il momento meno indicato. L’Arsenal è una mareggiata che sbatte a ripetizione contro i vetri del fortino juventino, via via sempre meno blindati. Buffon rinvia un paio di volte il 2-0 ma non può opporsi allo tsunami che arriva dopo il 60’, al ritmo di un’occasione al minuto.

Nel clima di esaltazione generale si illumina persino il bielorusso Hleb, altre volte modesto comprimario, che avvia l’azione proseguita ancora da Fàbregas, che con una geniale sterzata mette Henry di fronte alla porta vuota. Capello sventola bandiera bianca e si abbassa a voler conservare lo 0-2, togliendo l’impalpabile Mutu per il terzino Chiellini, uno di quelli che nella Highbury del 1934 avrebbe fatto bella figura magari con un bel turbante sul capo, nel 2006 schierato a centrocampo per evitare l’imbarcata. Il primo brusio di preoccupazione del pubblico gunner arriva all’84’, con un tentativo di pallonetto di Camoranesi che si spegne sul fondo. Lo raggiunge presto lo stesso Camoranesi, di lì a poco espulso per doppio giallo così come Zebina: la Juve chiude in nove con tre squalificati, perché al conto va aggiunto anche un Vieira ammonito e diffidato, mai così balbettante in dieci anni di carriera.

Anche qui c’è un giovanissimo Cesc in copertina

Negli otto giorni che separano andata e ritorno, inframmezzati da uno sconcertante 0-0 in casa dello scalcagnato Treviso, Capello si aggrappa ostinatamente alla tradizione, all’orgoglio e allo spirito, forse rievoca anche antichi motti da Ventennio («chi si estranea dalla lotta/è un gran fijo de ‘na mignotta!» soleva esclamare Attilio Ferraris, leone di Highbury ad honorem). Ma le gambe hanno abbandonato la Juventus da settimane. Spera di poter recuperare Del Piero, e non è così; spera di poter cavare qualcosa dal genio grezzo di Ibrahimović, e non sarà così; spera di poter spremere qualcosa di decisivo da Nedvěd, e non sarà così. La fiera delle illusioni juventine si celebra nel solito Delle Alpi spettrale, dove l’entusiasmo delle buone intenzioni lascia presto il posto alla solita frustrazione da ritorno a casa. Finché, a discorso ancora aperto, viene esposto uno striscione quantomeno ingeneroso: «Ora basta! Fuori le palle», plastica dimostrazione di quanto sia infiammato il nervo scoperto della Champions League.

All’Arsenal è sufficiente palleggiare e pressare per neutralizzare una Juve peraltro inadeguata in molte riserve, dal centrale croato Kovac all’onesto Giannichedda cui tocca il compito improbo e improbabile di rimpiazzare Vieira. Trezeguet non tocca una palla, non avendo nessuno che gliele fa pervenire; non Ibrahimović, fischiatissimo a ogni tentata finezza – la retorica machista del tifo recita che queste non sono serate da colpi di tacco (chissà se ce ne sono, allora); non Nedvěd, sempre più isterico, alla seconda espulsione consecutiva dopo due calcioni a Eboué nel giro di pochi minuti. Pavel avrà un ruolo importantissimo, da giocatore e non solo, nei grandi stravolgimenti che attenderanno la Juventus di lì a poche settimane: chissà se ha subodorato qualcosa.

Va a finire che il migliore in campo è come sempre un Buffon in odore di santità, decisivo su Henry, Fàbregas e Ljungberg, mentre il dirimpettaio Lehmann passa quasi una serata da plaid sulle ginocchia, protetto da una signora difesa che riuscirà a non subire gol in sei partite di ottavi, quarti e semifinali e in finale si arrenderà solo una volta rimasta in 10, a Parigi contro il Barcellona.

Non è la fine di un ciclo: è la fine di un’èra. Non solo per l’orrendo Delle Alpi, l’unico dei pochi stadi «di una volta» che nessuno avrà mai il fegato di rimpiangere, alla sua ultima partita di Coppa; ma per tutto un sistema economico, politico, mediatico, forse anche un sistema di valori. Non è giusto ciurlare nel manico per rispetto di chi ci legge: a maggio la Juventus di Moggi, Giraudo & Bettega verrà travolta dall’uragano Calciopoli, perderà due scudetti e non ci guadagnerà certo in salute, in un letamaio di accuse, intercettazioni, sospetti e controsospetti, un tunnel da cui i ventri molli delle tifoserie coinvolte (soprattutto Juventus e Inter) non sono ancora usciti. E forse non ne hanno alcuna intenzione: molto facile in Italia, e anche un po’ redditizio, recitare il copione del vittimismo.

Cannavaro, il muro difensivo attorno a cui Capello aveva eretto le sue due Juventus, emigrerà a Madrid con la Coppa del Mondo e il Pallone d’Oro sotto braccio. Zambrotta e Thuram troveranno asilo a Barcellona. Vieira e Ibrahimović faranno anche peggio, accasandosi dal nemico interista. Oltre a qualche soldato semplice e parecchi ragazzi di belle speranze, a presidiare il fortino rimarranno Buffon, Camoranesi, Nedvěd, Trezeguet e ovviamente Alex Del Piero: da queste ceneri sportive e morali riuscirà a risorgere una Juventus ancora più spietata e famelica di quella della Triade, ma affetta allo stesso modo dalla stessa sindrome che la prenderà regolarmente nelle notti in Europa. Il destino, dicevamo.

Un estratto del libro Ma che Coppa abbiamo noi – La maledizione europea della Juventusdi Giuseppe Pastore, edito da 66thand2nd