Il fascino perverso delle scommesse per i calciatori

Storia degli scandali che negli ultimi quarant'anni hanno travolto, più o meno ciclicamente, il nostro campionato.

Pensavamo che fossero i Mondiali a scandire le nostre vite di appassionati di calcio. In realtà sono gli scandali legati al pallone: quelli che da tempo vengono archiviati con la fascetta calcioscommesse. Periodiche prese d’atto della realtà che, però, mai incidono in maniera significativa sulla complessiva capacità d’attrazione del pianeta football. A ogni pagina teoricamente destabilizzante segue il puntuale rifugio nell’oblio collettivo: il rito necessario per tenere in vita un parco divertimenti planetario e oggi anche una multinazionale che genera miliardi di profitti. Ma un business, è doveroso ricordarlo, il calcio lo è sempre stato. Sono cambiate le somme, oggi più alte. Non altro. E laddove circolano tanti soldi, nascono come funghi le truffe e i loro protagonisti. Ma nessuno ci fa più caso, giusto il tempo delle prime notizie. Stavolta c’è anche il diversivo Fabrizio Corona. Tra un po’ gli diranno di non disturbare perché devono guardare la partita.

Semmai l’aspetto interessante è che ogni scandalo riflette il proprio tempo. Sono uno specchio per osservare i mutamenti della società. Che cosa lega le vicende di Bruno Giordano, Ricky Albertosi e Paolo Rossi a quelle di Fagioli, Zaniolo e Tonali? Fondamentalmente, niente. Sono contesti lontanissimi. Basti pensare che allora si truccavano le partite perché si giocava soprattutto il risultato finale. Oggi si può scommettere anche sull’ammonizione di un giocatore. È un altro mondo.

A guardar bene un filo rosso è il funzionamento della giustizia italiana. Quello è cambiato poco: dal pentitismo alla spettacolarizzazione delle inchieste. Ieri furono le immagini della volante della polizia parcheggiata sulla pista di atletica dell’Olimpico: scena di quel celebre Novantesimo Minuto del 23 marzo 1980; oggi si risponde con le forze dell’ordine che arrivano a Coverciano per sequestrare i telefonini dei due calciatori della Nazionale. Nel 1980 alcuni finirono in carcere. Undici giorni a Regina Coeli per Albertosi, Giordano, Manfredonia, Wilson (e altri): uscirono pagando una cauzione di dieci milioni di vecchie lire. “Hanno arrestato il calcio” titolò il Guerin Sportivo.

Ma 43 anni non sono passati invano. All’epoca si gridò, con eccessiva enfasi, alla perdita dell’innocenza del calcio. Innocenza che in realtà non c’è mai stata. Oggi, in piena disillusione, nessuno si sorprende più di tanto. Come se ci si fosse assuefatti. Il gioco, se non truccato, è opaco. Ma a noi sta bene lo stesso. Al punto che c’è un tentativo di descrivere i protagonisti come persone afflitte da disturbi. Torna alla memoria la definizione che diede Gianluigi Buffon, uno che secondo alcune ricostruzioni spendeva milioni l’anno nel gioco d’azzardo. «Le scommesse sono l’attacco più vergognoso, mi dà fastidio sia stata messa in dubbio la mia correttezza sportiva. Se ho scommesso, e mai sulle partite, è stato perché chi vive la nostra vita deve trovare una trasgressione».

Anche in questo caso 43 anni si sentono. All’epoca a nessuno venne in mente di associare il termine ludopatia a Ricky Albertosi, che venne considerato sostanzialmente un imbroglione e un malato del gioco. Che si trattasse di scommesse o di cavalli. Di terapie di recupero nemmeno l’ombra. Il vizio era considerato parte integrante dell’esistenza, senza bisogno di scomodare Dostojevski o Vittorio De Sica. Il calcioscommesse anni Ottanta era figlio di quell’Italia e di quel tempo in cui i telefonini non esistevano, nulla era tracciato, nessuno conosceva i genitori dei calciatori e i procuratori si stavano appena affacciando sulla scena. Trinca e Cruciani, i protagonisti de La Stangata in versione calcistica, erano un ristoratore e un commerciante di frutta. Contattavano personalmente i calciatori, li rincorrevano negli alberghi. Gli incontri in cui stringevano accordi erano sempre precari, di fortuna. Erano tempi in cui i club non avevano ancora eretto torri d’avorio attorno ai loro tesserati. Gli spogliatoi erano inaccessibili, così come i centri di allenamento. Paolo Rossi – per dirla alla Venditti – era un ragazzo come noi. L’entourage non esisteva. Pablito quel famigerato incontro con Cruciani lo ebbe ad Avellino prima di Avellino-Perugia. Pochi minuti in compagnia di uno sconosciuto.

Incontro che Rossi raccontò così nella sua biografia. Un racconto ovviamente di parte, in cui sfiora il tema del pentitismo: «Mauro Della Martira, il giorno prima della partita, mi presentò solo un tizio strano, tale Massimo Cruciani. (…) Per salvarmi dall’accusa di “illecito sportivo” avrei dovuto farmi coraggio e denunciare Mauro Della Martira, e prendermi sei mesi di squalifica solo per aver omesso quello che sapevo e che in molti conoscevamo. Ma come si fa a denunciare un compagno di squadra? Il mio errore è stato tacere, cercare ingenuamente di proteggere Mauro. E mi sono ritrovato dalla sera alla mattina con tre anni da scontare lontano dal campo di calcio, poi ridotti a due dopo il mio ricorso in appello. (…) Cinque anni dopo, Cruciani confermò le mie convinzioni ammettendo che fui tirato in ballo solo perché ero un simbolo».

I calciatori in tribunale dopo lo scandalo del 1980: si riconoscono, tra gli altri, Enrico Albertosi, Lionello Manfredonia, Paolo Rossi (ANSA/Wikimedia)

Quel calcioscommesse ricalcava le atmosfere dei film grotteschi dell’epoca, basati sugli equivoci, i non detti. Trinca e Cruciani andavano a traino dei calciatori che a volte non li assecondavano, non sempre rispettavano i patti. Fu quello il vero problema. Lo scandalo scoppiò proprio perché i due erano pieni di debiti e non ne potevano più di apparecchiare le partite e ritrovarsi con risultati diversi da quelli pattuiti: “Ah sì, adesso vi facciamo vedere noi”. E quelli andarono dal commissario e dissero senza parafrasare: in Serie A truccano le partite, vi spieghiamo chi, come e perché. Fu un trauma per l’opinione pubblica. Un trauma anche mediatico. Le immagini dei giocatori nelle aule di tribunale scioccarono tutti. Molti calciatori noti ammisero le loro responsabilità e chiusero con l’attività agonistica. Il personaggio simbolo di quella triste vicenda è sempre rimasto Paolo Rossi e una verità, per molti inconfessabile, fu che il Mundial 82, con Pablito grande protagonista, finì col diventare una secchiata di vernice a quella pagina infame. Avvenne quasi una rimozione collettiva. Una forzatura. Ciascuno fece finta che nulla fosse mai accaduto.

Pochi ricordano che nel 1986 scoppiò un altro scandalo, definito del Totonero. E il grande protagonista fu Armandino Carbone, braccio destro di Italo Allodi, considerato uno dei più illustri manager del calcio italiano eppure più volte lambito da sospetti poco onorevoli, sin dai tempi della grande Inter di Herrera. Questo scandalo se lo ricordano i tifosi della Lazio che si videro prima retrocessi in Serie C e poi riammessi in B con nove punti di penalizzazione. Ma lo ricordano soprattutto per l’epica della salvezza partendo proprio da -9. Dell’illegalità in sé non è rimasta traccia. In mezzo ci sono tanti altri scandali, tra cui il più importante è certamente quello scoperchiato dalla Procura di Cremona nel 2011, quello della confessione di Andrea Masiello, ex Bari. Che rivelò: «Sì, quel clamoroso autogol nel derby col Lecce lo feci per soldi, la buttai apposta nella nostra porta». Ha patteggiato, scontato la pena ed è tornato a giocare. Nel pieno rispetto del principio di Cesare Beccaria del valore rieducativo della pena.

Tornando a un paragone tra i protagonisti di ieri e di oggi, nel 1980 Bruno Giordano pianse pensando alla carriera che aveva distrutto (in realtà si riprese e vinse lo scudetto a Napoli con Maradona). Oggi Sandro Tonali piange un po’ per la vergogna e un po’ per lo smarrimento di un’esistenza che viene descritta – a nostro avviso enfaticamente – come vuota e priva di riferimento. Calciatori erano e calciatori sono. Chi più realizzato, chi meno. Anche Giordano, Manfredonia e gli altri guadagnavano bene. Non avrebbero avuto bisogno di arrotondare. Di certo è cambiato il contesto. Quello degli anni Ottanta sembrava più superficiale, caciarone. Si sentivano inattaccabili, pensavano di poter disporre di chiunque. Dei tifosi come dei truffatori loro complici. Il clima attuale è più depressivo, addirittura con una latenza patologica – che sia vera o presunta, magari utilizzata solo per provare a camuffare le proprie responsabilità – che allora non sfiorava nessuno. Forse oggi sono solo diventati più furbi, o hanno più soldi per pagare avvocati migliori. Oppure hanno interiorizzato la consapevolezza di una impunità che più o meno sta bene a tutti. Toccatemi tutto ma non il pallone.