Dal 1992 al 1997, Dorian Yates è imbattibile. Che si tratti del palco dell’Olympia o di quelli dei Grand Prix cui prendono parte i culturisti più forti del mondo, quando The Shadow sale in cattedra è per fare piazza pulita. Sempre più grosso e sempre più tirato, in gara Dorian è un cannibale: determinato, aggressivo, concentrato. Per alcuni anche troppo. Nel 1996, in Germania, poche settimane dopo il quinto Sandow, Yates esibisce una delle migliori versioni di sé stesso. Contro avversari di tutto rispetto, la sua routine è ancora una volta impeccabile: pose perfette e una sicurezza assoluta gli assicurano l’ennesimo trofeo. E l’ennesimo assegno. Ma quello che stupisce addetti ai lavori e pubblico è che il campione si è presentato quasi più in forma che all’Olympia. Difficile dire da cosa sia dipeso, ma anche se le luci dello show probabilmente lo favoriscono, la qualità della preparazione è indubbia. Pieni e granitici, sotto un sottile strato di pelle i muscoli risaltano come non mai.
Allestita su un set che impallidisce al confronto con quello di Chicago, dove si è tenuto il trentunesimo Mr Olympia, la prova tedesca è la conferma di una vera e propria dittatura sportiva. Per farsene un’idea, basta guardare in rete il video della gara e aspettare che Yates si giri per eseguire le figure posteriori, quelle in cui è insuperabile. Visto così, non c’è una fibra muscolare che sia una a sfuggire al suo controllo: sotto al trapezio e ai romboidi, erettori spinali e gran dorsali disegnano un triangolo quasi perfetto; ai lati, con le braccia tese verso il basso prima di flettersi all’altezza delle spalle, i tricipiti sembrano scolpiti nella pietra; sotto la vita, glutei e femorali sono completamente striati e i polpacci semplicemente fenomenali. Così come i deltoidi non appena passa al doppio bicipite. La posa successiva, poi, il cosiddetto lat spread, mostra la schiena in tutta la sua vastità. Un parametro di riferimento che resiste ancora oggi.
Insomma, nonostante l’infortunio del ’94, il Dorian del 1996 è un atleta al massimo della maturità fisica e agonistica. Qualcosa che non si è mai visto prima. Dall’ultima vittoria da professionista di Schwarzenegger sono passati appena sedici anni, ma rispetto alla definizione e alla maestosità che ammirano gli spettatori di Darmstad, la piccola città dell’Assia che ospita il Grand Prix, si direbbe ne siano trascorsi sessantasei. Con Yates il bodybuilding è entrato definitivamente in una nuova èra stabilendo uno standard che difficilmente potrà essere superato. A dispetto dei suoi detrattori – pochi, per la verità – il primo dei mass monster, ovvero quei fenomeni che dal Duemila in poi si attesteranno stabilmente su un peso in gara di più di centotrenta chili, è anche l’ultimo dei bodybuilder in cui l’estetica, e cioè la proporzione e l’armonia tra i diversi distretti muscolari, è ancora un elemento imprescindibile.
Eppure, sceso dal palco, Dorian come al solito non festeggia. Stringe mani, si concede a qualche foto, firma un paio di autografi e se ne va. Con la testa è già nella sua Birmingham, tra i manubri e i bilancieri della Temple Gym. L’obiettivo, ovviamente, è il prossimo Olympia, il quinto da campione in carica. Una sfida da affrontare con la massima determinazione, perché restare in cima è ben più difficile che arrivarci. È questo che fa di un campione un fuoriclasse e di un uomo un cannibale. Ed è per questo che Dorian torna ad allenarsi con l’intensità e la violenza di sempre. Incurante di ogni altra cosa, si rinchiude ancora una volta in una vita scandita solo da allenamenti, dieta e riposo, day in day out. Ma lo spirito, prima ancora del fisico, comincia a vacillare.
Sebbene non ci sia tempo per fermarsi e nessuna scusa per rallentare, l’idea che la sua vita sia arrivata a un bivio si fa largo tra i pensieri. Mentre le settimane e i mesi scorrono senza soluzione di continuità, tornato in Inghilterra Doz, come lo chiamano gli amici, comincia a riflettere su cosa gli riservi ancora il futuro. Rispetto a quando ha cominciato ad allenarsi sognando di diventare un giorno il numero uno, molte cose sono cambiate. Ora è davvero in cima alla montagna e non vive più alla giornata: ha una casa, una famiglia, un conto in banca e una schiera di fan in tutto il mondo. E tutto questo lo ha guadagnato a modo suo, l’unico che conosca, col sudore e la fatica.
Tenendosi lontano da qualsiasi tentazione ha resistito alle richieste di trasferirsi negli Stati Uniti, per paura che le distrazioni avrebbero indebolito la sua volontà. Ha costruito di sé l’immagine di un atleta e non di un fenomeno da baraccone. Ha assicurato alla moglie e al figlio una tranquillità economica. Ha fatto molto, insomma, e adesso quando si guarda allo specchio non vede più il volto insicuro di un ragazzo che non sa cosa lo aspetti nella vita, ma quello fiero di un uomo che si è dato uno scopo e l’ha raggiunto.
Eppure, i fantasmi di un’intera esistenza vissuta al limite, superando ostacoli e difficoltà sin da bambino, sono duri da scacciare. Quando, di notte, l’adrenalina della giornata è ancora alta e la fame morde, fatica a prendere sonno. E allora pensa: pensa al padre con cui non è cresciuto e a cui non ha potuto dimostrare nulla, alla sorella Tanya morta troppo presto e agli amici persi per strada dietro una siringa o in una rissa. Pensa che anche lui avrebbe potuto fare quella fine se non fosse stato sbattuto in carcere a diciott’anni e che, dopotutto, non gli è andata poi così male. Ma ogni cosa ha avuto un prezzo. Per tenere la barra dritta non si è concessa se non la libertà di decidere del proprio destino. Ma questo – in particolare questo – è costato più di ogni altra cosa. Una per una, tutte le cicatrici che gli hanno cucito addosso la corazza del guerriero che nessuno riesce a sconfiggere stanno lì a ricordarglielo. E adesso, anche se lui non vorrebbe, rendono tutto maledettamente complicato.