Le donne nella NBA degli uomini

La NBA è un modello di inclusività senza eguali nel panorama sportivo mondiale: quali sono i successi e quanta, ancora, la strada da fare.

More than a league, more than athletes. Più di un campionato, più di semplici atleti. Così, da tempo, la NBA si vede e presenta al mondo, in prima linea nelle battaglie sociali come nessun’altra lega al mondo. Questo attivismo extra-campo non è più una novità, anzi: una prova di impatto è avvenuta nella bubble del 2020, con le proteste di tanti giocatori – sostenute dall’intera infrastruttura – per la giustizia sociale e nello specifico contro il razzismo sistemico degli Stati Uniti; ma si tratta di uno sforzo diffuso, che si protrae 365 giorni l’anno e interessa una vastità di ambiti. E quindi anche l’equità di genere, tema su cui si osserva una crescente sensibilità.

Voci femminili e opinioniste a bordo campo non sono più un’eccezione agli occhi del pubblico, ed è sempre meno raro trovare delle protagoniste anche al centro dell’azione, tra posizioni dirigenziali, allenatrici, arbitri e agenti. Tra loro, ad esempio, le giornaliste Doris Burke, Allie LaForce e Malika Andrews, volti che fanno parte del quotidiano di chi ha familiarità con il mondo NBA, oppure Jeanie Buss e Teresa Resch (dirigenti), Becky Hammon e Brittni Donaldson (assistant coach), Erika Ruitz, Jessica Holtz e Danielle Cantor (agenti). La strada da percorrere è ancora lunga, con diverse aree di miglioramento di cui la NBA è consapevole e che, infatti, pone come priorità per gli anni a venire; allo stesso tempo, numerose associazioni che si battono per colmare il gap di genere, nel mondo sportivo e non, sottolineano come si tratti di un’eccellenza del settore. Lo confermano in primis i dati, che ergono la NBA a modello di riferimento tra le quattro grandi leghe americane. Nell’annuale Racial & Gender Report, condotto da Richard Lapchick e dal TIDES (The Institute for Diversity and Ethics in Sport), ha ottenuto un punteggio di B+ per quanto riguarda l’equità di genere nelle pratiche di assunzione, mentre NFL, MLB e NHL si sono fermate rispettivamente a B, C+ e C.

Il punteggio di 86,5/100, determinato da una serie di indicatori che misurano sforzi e risultati sulla strada delle pari opportunità, ha avuto un aumento di cinque punti rispetto al 2021, a testimonianza dei progressi compiuti per scalfire la predominanza maschile tradizionalmente insita nell’ambiente sportivo. Se la proporzione di donne presenti all’interno degli uffici della lega (43,4%, voto A) tende sempre di più a un’equa rappresentanza, però, lo stesso non si può ancora dire per le posizioni manageriali di rilievo nelle franchigie (28,3%, voto C), gli staff tecnici (15 assistant coach nella storia, 12 delle quali dal 2017 in avanti) e gli ufficiali di gara (6 donne su 125 arbitri attivi nel 2023). «I progressi in materia di diversità ed equità, valori fondanti della lega, sono incoraggianti e ne siamo fieri», ha detto Oris Stuart, Chief People and Inclusion NBA. Persiste, parallelamente, la consapevolezza che ancora ci sono barriere da abbattere e pregiudizi da sradicare, come il commissioner Adam Silver ha sottolineato in più occasioni. L’esigua presenza di figure femminili con fischietti e lavagnette in mano è un tema molto discusso: «Un ambito dominato dagli uomini, e per così tanto, non è quello che vogliamo. Puntiamo al 50-50 nelle assunzioni, non c’è nessuna ragione per cui le donne non possano arbitrare o allenare gli uomini».

Se l’impegno non è mancato in questo senso, come certificano la proattività di Silver e i tanti programmi (Coach Equity Initiative, Equality Database, NBA Women’s Network, NBA ASCEND), l’attesa per il raggiungimento di determinati traguardi sta alimentando la pressione. Ad esempio, quella del giorno in cui una franchigia affiderà per la prima volta le chiavi della squadra a una donna. «Sarei sorpreso e deluso se non accadesse nel giro di pochi anni», diceva Silver nel 2022, intervenendo sul dibattito detonato dal caso Becky Hammon. Il percorso dell’ex assistente di Popovich a San Antonio ha messo la lega di fronte a un’inevitabile riflessione sugli ostacoli che separano le donne da certe opportunità. Dopo una carriera da All-Star in WNBA, Hammon nel 2014 ha intrapreso il cammino da coach con gli Spurs, iniziando una rapida scalata delle gerarchie nello staff, fino a diventarne la seconda voce e raggiungendo uno status senza precedenti per un’allenatrice. Tuttavia, nonostante otto anni al fianco di una delle migliori menti nella storia del gioco, che non ha perso occasione per sottolineare le capacità tecniche e comunicative di Hammon, la grande chiamata non è mai arrivata.

Hammon, tornata nel frattempo in WNBA, pubblicamente si è sempre tenuta alla larga dall’alimentare polemiche, anche quando la scelta è ricaduta su colleghi con limitata o nessuna esperienza tecnica, come nei casi di Nash a Brooklyn e Billups a Portland. Un approccio encomiabile, perché la dietrologia sul singolo caso sarebbe a sua volta permeata di preconcetti; la sua frustrazione, però, è trapelata quando ha detto che «se avessi 16 anni di trascorso in NBA e mi chiamassi Brian di nome, sarei già stata assunta un paio di volte come head coach». Il suo caso non è che la punta dell’iceberg. Tante colleghe si schiantano ogni giorno contro robuste resistenze a vedersi riconosciute le opportunità e la considerazione dei corrispettivi maschili. Anche Nancy Lieberman, Jenny Boucek e Lindsay Gottlieb hanno parlato del double 101 standard nei processi di assunzione: «Mi è stato chiesto se fossi sicura che i ragazzi mi avrebbero seguito, e mi sembra strano: non credo venga chiesto agli uomini».

La presenza femminile per le posizioni manageriali nelle franchigie è ancora bassa, solo il 28,3 %. Ma l’obiettivo a lungo termine dell’NBA è quello di puntare al 50 e 50 nelle assunzioni (Ethan Miller/Getty Images)

Il punto non è, ovviamente, la corrispondenza di genere tra coach e giocatori, come ricordano ad esempio i tanti allenatori in WNBA, bensì la presenza di ingombranti pregiudizi sulle possibilità di una donna di gestire uno spogliatoio maschile; e, allargando il discorso ad altre posizioni, di esercitare una leadership credibile in un ecosistema composto per la stragrande maggioranza da individui dell’altro sesso. «In ogni ambito in cui non si parla di atletismo o forza fisica, ogni disuguaglianza è dovuta a bias cognitivi», ha detto Silver. Dunque, cosa rende queste barriere tanto difficili da intaccare, pure all’interno di una lega all’avanguardia su questi argomenti?

L’approccio della NBA è orientato a incentivare organicamente il processo, dunque non tramite strumenti impositivi, con quote e requisiti di diversità nei processi di assunzione, come avviene in NFL con la Rooney Rule. Perciò, è necessario prima di tutto creare un terreno fertile su cui edificare i prossimi step del percorso. E quindi? Innanzitutto, parlarne. A ogni livello, rendendo tutti consapevoli e partecipi del problema, dentro e fuori la lega. I giocatori più popolari possono dare un contributo significativo, come abbiamo visto con Curry, Gasol, Conley e altri che si sono spesi per cementificare – importante: da dentro uno spogliatoio NBA – una certezza ancora poco salda: che leadership e carisma siano attributi genderless. Lo testimonia la storia di Teresa Weatherspoon, che dopo una carriera da giocatrice WNBA e poi da allenatrice a Louisiana Tech, ha intrapreso il suo cammino nella lega, a New Orleans. Partendo dalle retrovie dello staff, è diventata un punto di riferimento tra gli assistenti di Willie Green, e soprattutto per Zion Williamson, che ha speso parole al miele sul suo contributo umano all’interno del team. Oppure, il percorso di Brittni Donaldson, entrata nei Raptors come data analyst, poi promossa all’interno del front office di Masai Ujiri e infine – ispirata dall’ascesa di Hammon, come lei stessa ha raccontato – lanciata in una carriera da allenatrice a Toronto, Detroit e Atlanta. «All’inizio, sentivo di dover parlare e pensare come i miei colleghi uomini, ma poi ho capito che se tutti in una stanza hanno lo stesso punto di vista non si guarda il quadro completo. Io potevo dare una prospettiva diversa e usarla a mio vantaggio».

Sono esempi che danno speranza, al netto dei passi ancora da compiere in un ambiente tanto competitivo e in cui lo status quo è così radicato. Perché possano moltiplicarsi negli anni a venire, il grande obiettivo cui tende la NBA è una maggiore presenza femminile all’interno dei processi decisionali delle franchigie, ovvero nelle posizioni ai vertici delle stesse. «Il problema è che, quando si cercano donne per questi profili, ce ne sono poche con sufficiente esperienza», spiega Danielle Cantor, «è un cane che si morde la coda: non puoi fare esperienza se nessuno ti dà opportunità». Per questo, da una parte Adam Silver si dice intenzionato a mantenere un approccio organico, dall’altra lascia intendere di osservare gli sviluppi della situazione e non esclude l’introduzione di uno strumento simil-Rooney Rule. Un passo dopo l’altro, la lega sta spingendo sempre più in là le barriere di genere, mostrando per l’ennesima volta una rara disponibilità a mettersi in discussione – proiettate tutto ciò che avete appena letto, ad esempio, nel contesto calcistico italiano: ci riuscite? – nonché una capacità di smuovere acque stagnanti da decenni. Ed è questo che la rende un faro, capace di gettare luce e speranza dove per anni ha regnato il buio del pregiudizio.

Da Undici n° 51