Le qualificazioni ai Mondiali del Sud America sono una maratona, ma il sistema funziona

Più competitività, più soldi, più possibilità di investimento per le Federazioni.

L’ultimo incrocio tra Brasile e Argentina ha fatto la storia, nel bene e nel male: vincendo 0-1, la Selección è diventata la prima Nazionale a violare il Maracanã in una gara di qualificazione ai Mondiali; prima, durante e dopo la gara, le immagini degli scontri tra la polizia locale e i tifosi argentini – scontri a cui hanno partecipato anche alcuni calciatori, tra cui El Dibu Martínez – hanno fatto il giro dei social e quindi del mondo, evidenziando una volta di più il problema della violenza negli stadi sudamericani. Insomma, una semplice – e probabilmente inutile, almeno ai fini del risultato finale – partita di qualificazione ai Mondiali si è svolta in modo epico, ha avuto un enorme impatto sui media internazionali, è stata celebrata e raccontata. È l’effetto di una scelta fatta nel 1996, l’anno in cui la Conmebol (la confederazione del calcio sudamericano) decise di avviare una rivoluzione: quell’anno, in vista della fase finale di Francia 98, venne istituito per la prima volta il girone unico per determinare le Nazionali qualificate ai Mondiali. Dieci squadre partecipanti, diciotto giornate, tutti contro tutti: una maratona apparentemente disfunzionale e anacronistica. Che però ha cambiato per sempre lo scenario del calcio sub-continentale, e l’ha cambiato in meglio.

In tanti, dentro e fuori il Sud America (pensiamo per esempio ai club europei che devono inviare i giocatori dall’altra parte del mondo), si lamentano da anni delle troppe partite, dei lunghissimi viaggi tra i vari Paesi del sub-continente. Hanno anche ragione, se pensiamo alle difficoltà vissute dai giocatori. Basti pensare alle differenze geografiche: mentre il Brasile ambienta buona parte delle sue gare a Rio de Janeiro, l’Ecuador di solito sceglie lo stadio di Quito, posto a 2800 metri sul livello del mare. La Bolivia, invece, riceve le altre Nazionali nell’impianto di La Paz, a un’altitudine di 3600 metri. Proprio in riferimento alla Bolivia: non è stato raro che delle squadre decisamente più forti, persino Brasile e Argentina, facessero brutta figura in casa della Verde. La causa, ovviamente, riguarda l’aria troppo rarefatta, difficilissima da respirare per giocatori abituati ad altre condizioni.

Il punto, però, è che questi evidenti problemi logistici non hanno impedito il successo del girone unico, quantomeno dal dal punto di vista della crescita vissuta dalle Nazionali. Intanto va detto che tutti i format precedenti erano risultati troppo caotici e frammentari, soprattutto nel contesto di una confederazione che ha soltanto dieci squadre iscritte: prima del 1996 è accaduto spesso che le partite si giocassero a distanza di un anno l’una dall’altra, a volte anche di più, una condizione che ha messo in difficoltà tantissimi commissari tecnici. Ora, invece, il calendario è organizzato in modo regolare e con grande anticipo, anche per esigenze televisive: in questo modo, gli introiti sono aumentati, sono diventati “certi”, e anche le Federazioni più piccole hanno potuto ideare e attuare dei progetti a lungo termine. In questo senso, la crescita esponenziale di Ecuador e Venezuela è un segnale significativo: prima del 1996, la Tri aveva vinto soltanto cinque partite di qualificazione, poi ha conquistato il pass per quattro edizioni della fase finale (2002, 2006, 2014 e 2022); la Vinotinto, invece, è sempre stata considerata come la squadra materasso del Sud America, non a caso è l’unica rappresentativa del sub-continente a non essersi mai qualificata a un Mondiale, e invece oggi ha più punti del Brasile.

Ecco, questo è un altro punto importante: tutte le Nazionali hanno una reale chance di qualificarsi. L’avevano già prima, visto che parliamo di squadre di buon livello, ma poi sono aumentate dall’istituzione del girone unico, visto che possono giocarsela fino alla fine, considerando le tante partite e i tanti punti a disposizione. Per dirla brutalmente: quello organizzato dalla Conmebol è un campionato livellato verso l’alto, non ci sono partecipanti equipollenti a Gibilterra, San Marino, Myanmar, Nuova Caledonia. Di conseguenza, le Federazioni sono più invogliate a investire su politiche giovanili che possano valorizzare il talento, anche su commissari tecnici – di solito argentini e/o brasiliani – che hanno grande appeal e riconoscibilità. Ora che il Mondiale è diventata una competizione a 48 squadre, le cose potrebbero migliorare ancora: la Conmebol ha sei slot sicuri (due in più rispetto al format con 32 qualificate) e invierà anche una squadra agli spareggi interzona. Insomma, la formula inventata nel 1996 ha assunto ancora più senso, col passare del tempo. Certo, negli ultimi vent’anni il calendario dei club si è allargato a dismisura, e quindi forse le 18 partite obbligatorie sono diventate troppe, anche se spalmate su un periodo lungo quasi tre anni. Ma l’alta competitività rappresenta uno sprone per tutte le Nazionali del sub-continente, che per altro non devono neanche pensare alle qualificazioni per la Copa América – le 10 Nazionali sudamericane sono qualificate automaticamente a tutte le fasi finali. Insomma, il sistema funziona. Nonostante qualche bug, nonostante qualche evidente – ma insormontabile – problema logistico, nonostante le lamentele.