Fin da ragazzino, sono sempre andato in campo – senza mai raggiungere buoni livelli, metto le mani avanti – con i calzettoni abbassati fino più o meno alla metà della tibia, lasciando scoperta davanti la parte alta dei parastinchi e, dietro, un segmento di polpaccio. Il motivo? Perché così faceva Juan Sebastián Verón, e tanto poteva bastare. E poi perché mi sembrava un’elegante ed irresistibile ribellione alla robotizzazione del calciatore in divisa. Come tanti prima e dopo di lui, La Brujita ha seguito l’esempio di un’altra icona, estetica e non, del calcio italoargentino: Omar Sívori, il capostipite della tradizione. E allo stesso modo io, nel mio piccolo, ho raccolto il testimone di un padre che mi guardava da bordocampo ricordando di essere stato convinto anche lui, anni fa, che quei calzettoni andassero necessariamente portati in un certo modo. Il modo del suo idolo: Mario Corso.
Il gusto per il calzettone abbassato, o arrotolato, o non portato come da buon costume, ha preso piede negli anni Sessanta e sostanzialmente non è mai tramontato nel mondo del calcio. Anzi, si è evoluto nel tempo con nuove interpretazioni e protagonisti, di pari passo con gli sviluppi delle regole in materia. Ancora oggi sono tanti gli irriducibili romantici, come me, che avvertono vibrazioni diverse quando la palla finisce tra i piedi di qualcuno con i calzettoni abbassati: come se fosse in un posto rassicurante, dove verrà senz’altro trattata con cura, e soprattutto con l’imprevedibilità di chi veste, gioca e pensa fuori dagli schemi.
Come vedremo, esteticamente è un gusto che si addice maggiormente ed è più frequente su fisici esili e brevilinei, ma le eccezioni non mancano: Zirkzee, Barak, Dragusin e Dawidowicz, ad esempio, con il calzettone giù e le loro lunghe leve non sfigurano affatto. Antologicamente, invece, è una scelta che comunica (consapevolmente) qualcosa, e qui si entra nella leggenda. Nella tradizione del pallone, il calzettone abbassato è il segno distintivo del talento, puro. Di sensibilità nel tocco (meglio se mancino), di rapidità di piedi (un po’ di effetti speciali nell’uno-contro-uno, perché no), di pulizia ed eleganza tecnica (la tendenza ad accarezzare il pallone o toccarlo tanto con l’esterno, non guastano); ma è anche sinonimo di velocità di pensiero (il genio di un numero dieci, le geometrie di un regista, l’imprevedibilità di un dribblomane), di un certo ego (per riconoscersi come portatori degni), dei lati oscuri del genio e della sua proverbiale sregolatezza (talento incompreso o incompiuto, condannato al martirio sportivo). Tutte associazioni che si sono create e alimentate nel tempo, po’ per effetto dei giocatori che hanno reso celebre l’usanza – geni come Cruijff e Best, grandi numeri dieci come Rui Costa, Totti e Baggio – e un po’, forse, per il colpo d’occhio, per la sensualità della pelle scoperta rispetto all’effetto-cyborg della gamba imballata.
Per alcuni calciatori, in ogni caso, non sembra quasi una scelta: tratti estetici, tecnici o caratteriali li rendono inevitabilmente destinati a questo stile. E c’è, come vedremo, chi ne è consapevole e chi invece, sventuratamente, non lo ha (ancora) compreso. A completare lo spettro, infine, altre due correnti. Meno evocative magari, ma non per questo meno popolari: la scuola di chi, invece che scendere, sale fin sopra al ginocchio; e quella degli artisti dello sbrego lungo il polpaccio, sempre più gettonato. Prima di una rassegna di esempi in Seria A, facciamo un passaggio dal regolamento e dai motivi che, parastinco o non parastinco, hanno spinto tanti atleti a non allinearsi all’ortodossia del calzettone.
Le regole
Il calzettone giù ha vissuto la sua età più iconica, come detto, negli anni Settanta. Ed è rimasto in voga finché il regolamento non ha imposto l’utilizzo dei parastinchi, a fine anni Ottanta. La norma verrà codificata definitivamente in occasione di Italia 90, figlia del periodo in cui ci si interrogava sulla prevenzione dei contagi di HIV tra gli atleti. Come spiegato della sua commissione medica, la Fifa ha infatti imposto l’utilizzo di tale dispositivo per via dei rischi igienici legati alla cura, di solito con spugne non sterilizzate, delle ferite lacero-contuse alla tibia.
Nel tempo, decadrà la dimensione di misura profilattica ma non l’utilizzo del parastinco, prezioso in un altro tipo di protezione, da traumi e lesioni alla parte inferiore delle gambe. Tornando dunque alle origini, all’idea con cui Samuel Widdowson – padre riconosciuto dei parastinchi, evoluzione delle ginocchiere da cricket – li ha indossati per la prima volta, nel 1874. Nell’attuale Regolamento del Giuoco del Calcio AIA si legge che «i parastinchi devono essere di materiale idoneo ad offrire un adeguato grado di protezione e devono essere coperti dai calzettoni». Più o meno quello che la norma predisponeva quando è stata introdotta nel 1990, fatta eccezione per la rimozione a partire dall’edizione 2016 di completamente, in riferimento (fino al 2015) alla copertura del parastinco. Un semaforo verde, insomma, per chi dell’abbassamento del calzettone – anche solo di qualche centimetro – ne fa ancora una ragione di vita. O più semplicemente, di comodità.
Non solo estetica
Detto di chi è stregato dalla narrativa del calzettone abbassato, una parte di chi oggi opta per questo stile – o per le sue varianti, che passeremo in rassegna – è per ragioni di comfort. «Sono troppo stretti dietro, non scorre bene il sangue», aveva spiegato Radja Nainggolan quando gli era stato chiesto perché scendesse in campo con un vistoso squarcio dei calzettoni sopra il polpaccio.
Esigenze cardiovascolari e di comodità, dunque. Un discorso in cui la definizione muscolare, teoricamente, potrebbe essere un fattore, e non è un caso che uno con le gambe di Grealish giochi proprio così, minimizzando l’ingombro dei parastinchi usando modelli per bambini. Per anni, però, abbiamo visto Shaqiri e Hulk rinchiudere integralmente i loro (abnormi) polpacci dentro i calzettoni, dunque è chiaro che si tratti di un’esigenza del tutto soggettiva. Diversi professionisti la spiegano con la ricerca di quella libertà nei movimenti di cui godono in allenamento (senza protezioni), e quindi di minor ingombro o compressione possibile. Una questione di sensazioni : «Li abbasso perché mi sembra di essere più veloce, è come andare in auto con il finestrino giù», scherzava Luca Vialli.
I predestinati del calzettone giù
Dicevo, tratti estetici, tecnici o caratteriali rendono alcuni calciatori inevitabilmente destinati a questo stile. Mi viene subito in mente Kvaratskhelia: come potrebbe mai uno con quel modo di pensare e giocare a calcio, quel capello, quel fare d’altri tempi e quella grazia nei movimenti, non aderire? Oppure Dybala, altro che parla una lingua tutta sua con la palla; e per proprietà transitiva, il suo nuovo erede designato: Soulé. Ci sono poi le piccole botti col vino buono come Dimarco, Politano, Gudmundsson, Baldanzi, Deulofeu e Samuele Vignato: anche per loro, un po’ per corporatura e un po’ per l’interpretazione ribelle dei ruoli, si è trattato di assecondare un’inclinazione naturale.
Penso infine al misto di imprevedibilità ed eleganza, con un che di romantico, di giocatori come Candreva, Zielinski, Vlasic. E perché no, pure Éderson e il già citato Barak. Anche per loro parlerei di scelta spontanea, quasi inevitabile. E chi ci dice che il Milan, capitanato da uno storico paladino del calzettone abbassato come Calabria, non abbia visto in Musah il nuovo Kessié anche per questo? (Dovrebbe essere già chiaro, a questo punto dell’articolo, che tutto ciò non va preso troppo sul serio, ma è bene ribadirlo prima del prossimo gruppo.)
Sfuggiti al destino
Per chi crede al profondo significato intrinseco di questo stile, non è facile accettare che Luis Alberto non scenda in campo ogni domenica con il calzettone abbassato. È il suo genio, quasi incomprensibile pure per chi lo circonda, a reclamarlo. Le sue visioni, il modo in cui accarezza la palla, l’eleganza e la calma con cui si destreggia nello stretto, circondato da avversari in affanno che lo trattano con maniere così rudi. Un po’ per gli stessi motivi, anche Samardzic mi sembra che stia sfuggendo al proprio destino. E pure a Sánchez, Strefezza e Lazzari consiglierei di vagliare una svolta estetica: c’è l’imprimatur della sensibilità nei piedi, perché non fare compagnia alle botti piccole – e un po’ sregolate – col vino buono di cui sopra?
Poi, mi piace immaginare la conversione di Spinazzola e Mazzocchi, esterni agili, tecnici e capaci di guizzi fuori dagli schemi. O quella di giovani con fisici slanciati e un’interpretazione autoriale del proprio ruolo, che rappresentano un po’ l’evoluzione della specie: Bastoni, Scalvini, Colpani. Un appello, infine, a due giocatori per cui il calzettone abbassato dovrebbe essere obbligatorio, per il linguaggio del corpo, l’aura romantica o il look vintage: Bonaventura e Augello.
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Altre scuole di pensiero
Nel 2003, Thierry Henry dà il via a una moda destinata a rapida diffusione, alzandosi fin sopra il ginocchio i calzettoni dell’Arsenal. Una sorta di ribellione (moderata) alla ribellione, favorita dalla nuova vestibilità delle linee Nike di quell’anno. Seguiranno in tantissimi l’esempio del francese, tra cui Cristiano Ronaldo, Neymar, Mbappè. E anche oggi in Serie A troviamo parecchi discepoli. Per fare una manciata di esempi: Lautaro, Osimhen, Vlahovic, Giroud, Theo Hernandez, Di Lorenzo, Lobotka, Lookman, Kostic.
Sempre più popolare, poi, un’usanza comparsa una decina d’anni fa (in Italia, almeno) con i primi strappi o tagli visti sul retro dei calzettoni di Nainggolan e Campagnaro. Oggi è una pratica piuttosto comune e rispetto alle altre probabilmente più episodica, soprattutto per quanto riguarda la fantasia degli squarci. Recentemente ho notato Miretti e Frattesi con vistose spaccature sul polpaccio, il primo con un unico buco piuttosto ampio e il secondo con tanti piccoli strappi; altri casi su cui mi è caduto l’occhio sono Kean, Dumfries, Castellanos e Ruggeri, ma se ne vedono svariati in ogni partita.
Come non ricordare, infine, i laccetti à la Del Piero? Uno stile unico nel suo genere, con i lacci di scarpa usati per legare e fissare in alto il calzettone. Destinato al dimenticatoio, invece, il mix di stili e stranezze proposto da Callejón nel 2019: calza tirata fin sopra al ginocchio, tagliata sotto e indossata al rovescio, chissà se volontariamente. Non di grande successo, per chiudere in bellezza (più o meno), il tentativo di Morata in una partita di Champions League del 2015, quando lo spagnolo è sceso in campo con una calza aggiuntiva sopra a quella della Juventus. Piccolo problema: il colore, un fucsia più scuro rispetto al rosa della divisa. Un dettaglio non consentito e non sfuggito all’arbitro, che ha lasciato i bianconeri in dieci per diversi minuti mentre l’attaccante si toglieva e rimetteva scarpe, calze e parastinchi, sotto gli occhi di un Allegri furioso.