Un metro e novanta. A dieci anni. Del talento di Gigio, all’inizio impressionava soprattutto la stazza. Il suo corpo sembrava sovradimensionato in maniera sospetta. Gli avversari protestavano con l’arbitro, chiedevano di verificare una seconda volta la carta d’identità di quel portiere così allampanato da far pensare a un quadro di Modigliani, il collo lungo e gli occhi piccoli piccoli. I procuratori si sfregavano le mani e offrivano gingerini alla famiglia Donnarumma sulle gradinate dei campi sparsi nel napoletano. Quando Gigio viene acquistato dal Milan, appena 14enne, uno di questi ha già un rapporto così stretto con lui da andarlo a trovare spesso in cameretta per giocare alla Playstation. Si chiama Mino Raiola. Sembra tutto in discesa, e in effetti lo è. A 16 anni, otto mesi e sei giorni arriva l’esordio in Serie A. Poi il primo derby (è il più giovane della storia) e il passaggio di testimone in Nazionale direttamente dalle mani di Gianluigi Buffon. Tira aria di destino.
L’aggettivo “generazionale” diventa stucchevole, tante volte viene usato per descrivere il suo talento. Con Buffon condivide nome di battesimo, precocità e interventi ai limiti dello stunt. Più di tutto sorprende la velocità con cui, nonostante i quasi due metri di altezza, riesce a portarsi a terra sui tiri bassi, il modo in cui fa scomparire e ricomparire una parte del proprio corpo, come lo Stregatto di Alice: le gambe si dissolvono in una frazione di secondo e al loro posto, vicino ai fili d’erba, si materializzano i guantoni. Mentre i giornalisti fanno i giornalisti («Gigio Gigio, cosa farai quando sarai maggiorenne?») e il suo procuratore fa il procuratore («Vale già 170 milioni»), lui si limita a fare il portiere («Non ci penso, non ho nemmeno l’età per comprare un’auto»). E lo fa da fenomeno.
In quei primi assaggi con la maglia del Milan mette in mostra alcune delle sue parate più iconiche, tra cui quella che toglie dall’incrocio dei pali la palla del pareggio a Khedira, al 94esimo. Anzi, all’ultimo secondo. Certo, è altissimo, dicono alcuni. Qualche mese dopo, sempre contro la Juventus, ai rigori, respinge il tiro di Dybala portando il Milan alla vittoria della Supercoppa Italiana. Non è un caso. La sua figura riempie a tal punto lo specchio della porta da obbligare a tirare più forte, più angolato. A chi calcia, quegli undici metri paiono centoundici. Gigio non ha nemmeno bisogno di buttarsi in anticipo o ricorrere a giochetti psicologici, è troppo elastico, troppo reattivo. Se ne sta semplicemente sulla riga, le braccia lungo i fianchi, placido come la statuetta di un idolo africano. Se indovina l’angolo, la palla è sua. Quando respinge quello di Berardi, il 26 febbraio 2017, è maggiorenne da solo un giorno, ma è già al quinto rigore parato in Serie A.
Il paragone tra portieri e gatti è trito e ritrito, forse perché azzeccato. Nel caso di Donnarumma, però, il gatto in questione è quello di Schrödinger. La telenovela sul rinnovo che va in scena quell’estate ha l’effetto di cambiare per sempre la sua narrazione: Gigio è un predestinato e un sopravvalutato, un ragazzone sensibile e un cinico opportunista. I tifosi non gli perdonano di essersi dichiarato milanista fin da piccolo, di aver baciato la maglia dopo uno Juve-Milan, e poi aver lasciato correre le voci su un suo passaggio in bianconero. Non gli perdonano l’aver giocato al rialzo per qualche milioncino in più, a quell’età poi, e aver sistemato “il fratello parassita”.
Se fosse un documentario sulla vita di Donnarumma, questo sarebbe il momento in cui un montatore perverso direbbe: “Ok, fin qui ho voluto mostrarvi quanto era bravo e precoce e talentuoso, ma adesso basta. Guardate, c’è dell’altro”. Nelle quattro stagioni successive in rossonero, nonostante le sue prestazioni siano in linea con quelle precedenti, se non migliori, si tende a dare molto più spazio agli errori. Le papere, le uscite a vuoto, le incertezze coi piedi. C’erano sempre state (fanno parte della storia di qualunque portiere), ma adesso assumono tutta un’altra rilevanza. Le grandi parate scivolano sullo sfondo, ridotte a messaggi subliminali di un talento che c’è, ma che viene dato ormai per scontato. E a quel montaggio da Paperumma si accompagnano altri frame. Questi sì, nuovi: i fischi dei tifosi, gli striscioni contro, Dollarumma. Le lacrime, Bonucci che in un Milan-Verona di Coppa Italia si mette fronte a fronte per consolarlo.
«San Siro è San Siro… è difficile quando sono contro di te, quando ti fischiano. Provavo a non pensarci, ma anche se non volevo, ci pensavo e soffrivo», dirà Gigio più avanti. Si è parlato molto della tenuta mentale di un ragazzo così giovane sottoposto a pressioni enormi. In un’età in cui la maggior parte delle persone pensa a cosa fare il sabato sera o alla scritta sull’elastico delle proprie mutande, Donnarumma fa il portiere titolare del Milan. Gli allenatori cambiano, ma non lo mettono in discussione. Le sue parate portano il Milan in Champions dopo sette anni e quelle su Schaub, De Bruyne e Dani Olmo valgono il pass per la finale di Euro 2021. E poi arriva quell’immagine. Donnarumma che, dopo aver respinto il rigore decisivo a Saka, cammina noncurante, scazzato, come se si allontanasse da un banale bisticcio tra ragazzini, mentre i compagni lo inseguono e gli urlano “Gigioo, siamo campioni d’Europa!”. Viene eletto Mvp del torneo, si classifica decimo al Pallone d’Oro e vince il Premio Yashin. Insomma, diventa quello che sognava da bambino, “il numero uno dei numeri uno”.
Quella stessa estate però, proprio quando è più vicino alla consacrazione di un talento da aggettivo stucchevole, il passaggio definitivo al PSG a parametro zero risolleva la solita, indignata domanda: davvero due milioni in più rispetto a quelli offerti dal Milan fanno tutta questa differenza? È una domanda che ha una sua logica, ma una logica parziale. Si ignora, o si finge di ignorare, che tra tifosi e giocatori esiste una differenza di fondo: per i primi il calcio è solo passione, per i secondi è un lavoro. Soprattutto, in maniera inconscia, inconfessabile, la domanda mette in luce il vero aspetto imperdonabile di Donnarumma: il suo talento. Che per molti si riduce a quel fisico da Mister Fantastic, come i ragazzini che protestavano con l’arbitro. Come a dire: non hai avuto alcun merito a essere un enfant prodige, mostra un po’ di umiltà. O, quantomeno, sii perfetto.
In un ruolo che più di tutti richiede costanza di rendimento e spinge a giudicare per estremi – miracolo o papera, predestinato o sopravvalutato – è come se aspettassimo Donnarumma al varco del nostro risentimento. Perché ha tradito. Perché – ma questo non lo ammetteremo mai – ha un talento scandaloso. E ancora una volta, in quel gigantesco video di highlights che è la percezione collettiva, si ricomincia a dare più spazio al lato goffo, e molto parziale, di Donnarumma. Clicchiamo sull’errore che ha permesso a Benzema di avviare la rimonta del Real Madrid, o al passaggio maldestro contro la Germania, e ignoriamo tutte le altre grandi parate. Perché continua a farle, perfino nelle stesse partite in cui sbaglia. Poi è vero, coi piedi e sulle uscite alte Gigio può e deve migliorare ancora. Secondo alcuni il problema sarebbe più psicologico che tecnico. Sui tiri non hai il tempo per pensare, vai d’istinto. Sui retropassaggi o sui cross avversari invece lo spazio-tempo si dilata, spalancando praterie dove corrono dubbi e indecisioni. Può essere che tutti questi anni di maltrattamento mediatico lo abbiano reso incerto, insicuro. Ma di nuovo, ci dimentichiamo o fingiamo di dimenticarci che stiamo parlando di un calciatore di 24 anni. Molti dei suoi colleghi giocherebbero tranquillamente per altri dieci anni, se non quindici. Il tempo è dalla sua. Perché «quando Dio ti concede un dono», diceva Truman Capote, «ti consegna anche una frusta». Capire a cosa serve questa frusta, sprone o flagellazione pubblica, è l’obiettivo di un’intera carriera.