Per José Mourinho, il calcio è una guerra infinita

La sua Roma gioca e vive le partite come se fossero battaglie. E lui è costantemente alla ricerca di nemici da combattere, fuori e dentro il club giallorosso.

O con me o contro di me. Ci vuole il fisico per stare con José Mourinho. Un fisico bestiale. Chissà se i Friedkin la fecero in maniera approfondita, la loro riflessione. Probabilmente no. Era troppa l’eccitazione di mettere a segno il colpo che li avrebbe catapultati al centro della scena europea. Perché prendere lo Special One è come scritturare Marilyn Monroe o Marlon Brando: vai dritto in prima pagina. Ti trovi i riflettori in casa. Poi, però, bisogna avere la forza e la resistenza di portare avanti un rapporto quotidiano con i divi. Di stare dietro ai loro pensieri. Alle loro parole. E alle loro azioni. José Mourinho non lo trovi mai dov’era un secondo prima. Provi a raggiungerlo e lui ha già cambiato posto. Parte in commedia. E nemico. Perché Mourinho la propria figura pubblica la concepisce sempre e solo così: con un nemico. Un avversario. Contro cui scagliarsi e chiamare a raccolta i suoi. Noi di qua, loro di là. La conta è esercizio quotidiano. Se vuoi mostrare la coccarda di soldato di José, devi sudartela. Superare una prova dopo l’altra. Lui alza sempre l’asticella. Non si ferma mai. Ogni sua dichiarazione può annunciare un nuovo conflitto. In questo è orwelliano.

Da piccolo non è caduto nella tinozza della pozione magica, come Obelix. È caduto nella tinozza del De bello gallico. Se non ci fosse una guerra vera in corso, utilizzeremmo questo termine: guerra. Il concetto è quello. È il rumore dei nemici il carburante che fa alzare ogni mattina José dal letto. È l’equivalente del profumo del napalm di cui parlava Robert Duvall in Apocalypse Now. «Lo senti? Lo senti l’odore? Napalm, figliolo. Non c’è nient’altro al mondo che odora così. Mi piace l’odore del napalm di mattina. Tutto quell’odore di benzina. Odorava… odorava di vittoria». Ecco, a José il rumore dei nemici fa lo stesso effetto.

Mourinho è sempre stato Mourinho. Ovunque sia andato. A Manchester come a Madrid. Al Chelsea come all’Inter. Perderemmo troppo tempo a tirar giù l’elenco. Basta ricordare quando disse a Mario Sconcerti: «Non siamo amici. Se mi chiamano per cenare con lei, io non vado». Il metodo è sempre lo stesso. Chiama a raccolta i suoi, il popolo che lo seguirebbe in cima al mondo. Domenica, in Curva Sud, tempio dell’ortodossia giallorossa, è comparso il seguente striscione: “Gli occhi inebriati di giallorosso. L’anima pervasa dal romanismo. José Mourinho romanista a vita”. Firmato Curva Sud. Il romanismo. Termine che José utilizzò subito, al primo anno. Il 31 ottobre 2021 si giocò Roma-Milan. Finì 2-1 per i rossoneri. All’assegnazione di un rigore per gli avversari, reagì con una risata sarcastica, ovviamente in favor di telecamera, e fece il gesto ai tifosi di andare a casa. Come a dire: è inutile rimanere qua, il risultato è già deciso. Al triplice fischio finale andò in tv e parlò di romanismo: «Fa male al cuore vedere che non c’è rispetto per il romanismo, non c’è rispetto. Una partita senza rispetto per i romanisti. Mi fa male, non dico nulla di più. Ho fatto uno sforzo e sono riuscito a portare tutti i miei giocatori allo spogliatoio senza aspettare l’arbitro sulla porta».

L’Italia lo tratta come un Teomondo Scrofalo del calcio, ma ci siamo abituati. Qualche anno fa, fecero lo stesso con un certo Carlo Ancelotti, a cui ora srotolano tappeti rossi (per non dire altro). Nella patria del calcio all’italiana, chi gioca il cosiddetto calcio vintage si porta addosso le stigmate del superato, viene trattato come se fosse uno da compatire. José, come immaginerete, non ci perde il sonno. Suona il piffero e lo seguono. Tutti, anche chi non lo ama. È sempre lui a cambiare il copione. A decidere la scena. In politica si direbbe che è lui a decidere l’agenda setting. Come quando, all’indomani dell’indagine della FIGC per le sue frasi contro l’arbitro Marcenaro («non ha la stabilità emozionale per una gara come questa»), va in tv e parla portoghese «perché il mio italiano non è sufficientemente forbito». Lui che la conferenza stampa di presentazione all’Inter, anno 2009, la tenne in un italiano più che accettabile, certamente comprensibile.

L’accusa che gli rivolgono è di aver “intortato” i romanisti, di averli sedotti vellicando la loro innata sindrome di accerchiamento. Fatto sta che si è perso il conto dei sold-out consecutivi dell’Olimpico romanista. Per una squadra che è arrivata due volte di fila sesta in campionato ma ha giocato due finale europee consecutive. Squadra che, per usare un gergo da tressette, ha due assi stropicciati (Lukaku e Dybala ovviamente) e al massimo due figure. Il resto sono carte che nessuno vorrebbe con sé. Tornando all’intortamento dei romanisti, va ricordato che, quando ne ha sentito la necessità, non ha esitato ad attaccarli. Come dopo Roma-Verona dello scorso anno, quando lo stadio fischiò Bove. «La gente non capisce la dimensione di quello che stiamo facendo», disse. «Quando la gente guarda il nostro terzino destro, oggi non abbiamo né Cafu né Maicon. Si deve dare un credito. Questo ragazzo, Bove, se sono tifoso della Roma, lo porto in braccio ogni giorno. È più tifoso di loro, ama la Roma più di loro. Quando sono arrivato, stava per andare in prestito in Serie C, oggi è titolare della Roma. Voi (rivolto ai giornalisti, ndr) ovviamente non aiutate, tutti gli altri sono fenomeni, noi vinciamo perché o siamo fortunati o perché facciamo un gol da palla inattiva». Ecco, il gioco. Anche questo è un tema. La Roma pratica un calcio fisico al limite dell’aggressività. Non è difficile superarlo, un limite del genere. E ai giallorossi succede. Qualcuno si è lamentato anche della teatralità e delle proteste in (e della) panchina, delle perdite di tempo tattiche. Nel Regno Unito li chiamano mind games. E Mourinho nei mind games ci sguazza, li studia e li prepara come le partite. Da sempre. Da diversi anni pensa più ai mind games che alle partite, dicono i detrattori. La sua Roma è accusata di essere il frutto di questa regressione: il peggio del peggior Mourinhismo.

Eppure, nonostante tutto questo, José è riuscito in un’impresa ai limiti del sovrumano per la città sul Tevere: si è fatto amare anche se ha perso tre derby su cinque. Ne ha vinto uno solo. La chiamata alle armi, il senso di accerchiamento, il “noi contro tutti” ha potuto più dei derby. Ce l’hanno con noi. Ce l’hanno con Roma. Dopo Monza-Roma 1-1, dell’arbitro Chiffi disse: «Abbiamo giocato contro il peggior arbitro che ho incontrato nella mia carriera. E ne ho visti di scarsi. Come società non abbiamo la forza di dire questo arbitro non lo vogliamo». Per questa frase si beccò dieci giorni di squalifica, saltò le prime due giornate dell’attuale campionato. Così come ne prese quattro dopo le accuse all’arbitro Taylor, quello che diresse la finale di Europa League tra Roma e Siviglia. Ferite di guerra per il romanismo. Medaglie da esibire con orgoglio.

Da quando è arrivato alla Roma, nell’estate del 2021, lo score di José Mourinho è di 65 vittorie, 30 pareggi e 35 sconfitte in 130 gare di tutte le competizioni (Alex Pantling/Getty Images)

In estate, nell’intervista concessa a Ivan Zazzaroni dichiarò: «Se mi chiedi quale sia stata in due anni e due mesi di Roma la cosa che mi ha fatto sentire più fragile, rispondo che non è stata la partenza di Mkhitaryan, aver perso un giocatore che mi piace tanto e aver giocato un anno e mezzo con solo quattro difensori centrali quando è normale averne sei. La cosa più triste è stata non essere appoggiato dalla società in una situazione del genere (le polemiche dopo la finale di Europa League, anche dopo l’aggressione dei romanisti all’arbitro Taylor ndr)». Ecco, Mou non ha esitato a colpire la società durante le sue battaglie. A settembre, dopo il naufragio a Genova (Genoa-Roma 4-1), chissà chi fu a far circolare la notizia che Friedkin era pronto a esonerarlo. Con conseguenti turbolenze cittadine. Non deve essere facile accettare che da datore di lavoro si è più deboli del dipendente. Ma la realtà è che quasi nessuno ricorda il produttore cinematografico, tutti invece sanno chi sono Marilyn e Marlon Brando. In due anni e mezzo di Roma, è riuscito a litigare persino con i giardinieri dell’Olimpico. Quando i giallorossi andarono in Turchia per giocare contro il Trabzonspor, su Instagram pubblicò un video che ritraeva un giardiniere del campo del club turco: «Questo ragazzo sta lavorando sodo, non come quelli in vacanza all’Olimpico».

Alza sempre il livello dello scontro. Un mite come Andrés Iniesta disse di lui: «È stato dannoso per il calcio spagnolo. Credo che in generale abbia fatto più male che bene al nostro calcio. È stato il componente chiave delle pessime relazioni di quel periodo tra Barça e Madrid e chi non lo vuole vedere è al limite del radicalismo. Quella situazione ha creato tantissimi danni alla Nazionale, ai miei colleghi. Era assurdo. Non vedevo la rivalità di sempre, ma c’era odio». In Inghilterra aveva trovato il luogo perfetto per il suo approccio, per il suo stile. Anche se alla fine qualcuno si era stufato, i media e l’opinione pubblica lo hanno sempre seguito come si segue un professore da cui c’è sempre da imparare. E anche quando lo hanno criticato, persino aspramente, sono stati poi costretti a sorprendersi della sua ennesima rinascita. È successo al Guardian che, nel 2019, quando José commentava la Premier alla tv, fu spietato con lui. Gli diede del bollito, termine che in Italia ben conosciamo: «Il calcio di Mourinho appartiene a un’altra epoca: l’incantesimo è finito a Manchester, dove si è rivelato incapace di adattarsi e di lasciare che i calciatori si muovessero senza guinzaglio. Il suo primo istinto è quello di difendersi ma Klopp, Guardiola e Pochettino hanno mostrato ai tifosi, ai giocatori e ai presidenti la bellezza e il fascino del calcio d’attacco. È il football dell’era moderna. Mourinho ne diffiderebbe. Potrebbe pensare che ci sono troppi poeti e filosofi ad allenare in Premier ma lui adesso la domenica pomeriggio se ne sta seduto in uno studio tv, mentre Lampard è a bordo campo».

Quattro anni dopo, all’indomani della vittoria in semifinale di Europa League contro il Leverkusen e quindi alla vigilia della finale perduta dalla sua Roma contro il Siviglia, lo stesso quotidiano britannico fu costretto a prendere atto della realtà: «José Mourinho è ancora una maledetta furia, che porta con sé rancori antichi, deciso a non rinunciare mai. È il Keyser Söze della panchina, che manipola e complotta, irradia paranoia mentre insiste a dire che il suo club è vittima di una cospirazione da parte degli arbitri, dei media e delle autorità calcistiche. Lo sta ancora facendo! Non è cambiato! 28% di possesso. Un tiro in porta contro i 23 del Leverkusen. Palla in gioco per soli 54 minuti, nonostante 14 minuti di recupero. Un indice xG di 0,03. Questa è stata una celebrazione del mourinhismo, un Camp Nou 2010 dell’era moderna».

Qualche ora fa lo United di Ten Hag si è ritrovato fuori dall’Europa. A casa nel gruppo con Copenaghen e Galatasaray. E sapete chi è l’unico allenatore che, nel dopo Ferguson, è riuscito a portare un titolo europeo a Old Trafford? Proprio lui, che nel 2017 conquistò l’Europa League. È José Mourinho da Setubal. Perennemente in trincea. Un uomo a lento rilascio. Se la Serie A finisse oggi, la sua Roma sarebbe in Champions League. Con una squadra da due assi e due figure.