Quello dell’Atalanta è l’unico vivaio italiano che produce talento e sa venderlo

Il club bergamasco, a differenza delle altre squadre di Serie A, sta al passo con le squadre straniere.

È da anni, anzi ormai è da decenni, che l’Italia del calcio lamenta una profonda crisi di talento. Questa percezione è abbastanza aderente alla realtà, considerando anche i risultati altalenanti delle rappresentative nazionali, ma è vero pure che il nostro Paese ha vissuto momenti molto peggiori rispetto a quello attuale. Basti pensare al fatto che, appena un anno e mezzo fa, l’osservatorio CIES ha rilevato come ci fossero ben sei italiani tra i 100 calciatori al mondo con il valore del cartellino più alto, e che si trattava di sei calciatori Under-25: Barella, Locatelli, Bastoni, Tonali, Chiesa e Pellegrini. Il vero problema del nostro calcio, lo ha dimostrato proprio il CIES nel suo ultimo rapporto, risiede nell’incapacità di costruire dei settori giovanili in grado di formare dei giocatori di qualità, e in modo continuo. Solo l’Atalanta, infatti, ha un vivaio che funziona come quelli dei grandi club stranieri.

Ma andiamo con ordine, partendo dai parametri utilizzati dal CIES: l’osservatorio svizzero ha compilato la graduatoria delle squadre che hanno ricavato più soldi dalla vendita dei giocatori cresciuti nel proprio vivaio, cioè che hanno militato in società almeno per tre stagioni tra i 15 e 21 anni, e che quindi hanno prodotto i migliori talenti degli ultimi dieci anni. Al primo posto, staccatissimo da qualsiasi altro club, c’è il Benfica: 516 milioni incassati per 30 giocatori tra il 2014 e il 2023. Il podio viene completato da Ajax e Lione: la squadra di Amsterdam ha venduto 36 giocatori formati nel vivaio, e da queste operazioni e ha ricavato una somma totale di 376 milioni; l’OL, invece, ha formato e poi ceduto 32 calciatori, generando un incasso complessivo di 370 milioni.

Ecco, questi più o meno sono gli ordini di grandezza. L’Atalanta, come detto, è l’unico club italiano che può essere accostato a certi numeri. E neanche tanto: dal 2014 a oggi, infatti, la società bergamasca ha venduto 34 giocatori cresciuti nel vivaio, e ha incassato 250 milioni di euro. Più di Salisburgo (18 giocatori, 249 milioni di incasso), PSV (22-248) e Porto (19-221), ma meno di Real Madrid (28-364), Chelsea (28-347), Monaco (18-325), Sporting Lisbona (31-306), Tottenham (23-256), Manchester City (27-254). Il vero problema è che, almeno guardando al sistema italiano, l’Atalanta rappresenta un’eccezione: bisogna scendere fino ai 134 e ai 131 milioni di Roma e Inter, per trovare altri due club italiani in grado di produrre dei ricavi a tre cifre generati grazie ai giocatori del vivaio. Inoltre, viene da dire, si tratta di cifre sproporzionate rispetto al numero di calciatori formati e poi rivenduti: per arrivare a incassare quelle cifre, sia la Roma che l’Inter hanno dovuto cedere 35 ragazzi. Basta fare delle semplici divisioni per rendersi conto che no, non si trattava di grandi campioni. Paradossalmente, ma neanche tanto, l’Empoli ha dimostrato di saper lavorare decisamente meglio: 15 giocatori formati e poi rivenduti negli ultimi dieci anni, 104 milioni di incasso.

Insomma, il problema delle nostre squadre, soprattutto di quelle più importanti, è che il talento non viene coltivato in modo sistemico: quello che c’è, piuttosto, viene intercettato con degli exploit abbastanza isolati, quindi inevitabilmente casuali. Da qui nasce il gap con i top club di altri Paesi, al di là delle differenze nei ricavi strutturali. Da qui, alla lunga, comincia a determinarsi la crisi del nostro movimento. Quella vera.