Il Napoli che vince lo scudetto nel 2023 è una cosa che se l’avessi scritta in un romanzo o in una sceneggiatura sarebbe stata cassata dall’editor. Troppo inverosimile che, alla fine del quinquennio in cui la città ha vissuto una fioritura turistica mai vista (un reportage di Le Monde ripreso da Internazionale del 17 agosto riporta il dato preciso: da 3,2 milioni di turisti nel 2017 a 12 milioni nel 2022) e alla fine dell’anno in cui il fenomeno pop più pervasivo in Italia è stata una serie televisiva ambientata a Napoli, la città vinca il suo primo campionato in 33 anni. Tempo fa, un eccellente capostruttura di Rai Fiction fustigava me e il gruppo di scrittura di una serie che supervisionavo con quella che lui definiva la sua Seconda Regola: «In una storia le coincidenze sono accettabili, ma solo se complicano la vita del protagonista» (per la cronaca, la Prima Regola era: «Più calore». Più calore – cioè più sentimenti – sempre, a prescindere dall’argomento della storia: era pur sempre Rai Fiction). Aveva ragione lui, naturalmente, ed è il motivo per cui la coincidenza dello scudetto, che non complica la vita della città, oggi a me sembrerebbe un glitch di sceneggiatura.
Mi è capitato di scriverne e parlarne altrove: Napoli è diventato il primo set di Italia, la città cioè che produce più ore di audiovisivo nel paese. Mare Fuori, tra Amica Geniale, Gomorra e tutto l’indotto di De Giovanni: non esiste città in Italia che parla di più al mondo di sé stessa. Ma questo flusso continuo di rappresentazione, prima di cinema e tv, contagia le pagine di Instagram, grazie ai fotografi specializzati in vicoli e scugnizzi davanti ai murales in chiave urban-chic, a Liberato, al signore con il tatuaggio Tutto Passa in petto che infatti è arrivato anche su Rivista Studio. E la città offre sponda continua al racconto di sé e ne moltiplica le occasioni: i finti panni stesi a via dei Tribunali, la “limonata a cosce aperte” che nei miei quarantuno anni di vita non avevo mai sentito nominare e adesso è un meme – sembra – imprescindibile.
C’è il tradizionale pazzariello a piazza San Domenico che vende le lauree e il nuovo pazzariello pochi metri più in là che ti fa la foto con il corno «per TikTok». E poi tutta la sconfinata semiotica parallela del cibo, fatta di cuoppi, spritz, pizze fritte, scarparielli, babà, infinite permutazioni del concetto di sfogliatella, e sempre a proposito di TikTok, il salumiere con centinaia di migliaia di follower, che in un corto circuito tra esibizionismo social e cronaca nera dedica un panino in lacrime anche alla mamma rimasta vittima di una storiaccia di violenza («stracciatella, mortadella, olive con le mandorle: questo è il panino che tu volevi, mamma»).
Durante i festeggiamenti per lo scudetto, sono di passaggio a Napoli. Precisamente, durante il week-end di Napoli-Salernitana, quello in cui la squadra rischia di vincere matematicamente il campionato, ma poi non vince. La città, comunque, è scenografata da settimane: le bande bianche e azzurre stese da un palazzo all’altro, i banchetti degli sbandieratori agli angoli delle strade. La cumana che da Fuorigrotta porta al centro è assediata da corpi dipinti di azzurro da un attento reparto trucco e parrucco, organizzati fino all’uscita della fermata Montesanto con i cori da stadio, la selva di smartphone alti a riprendere la scena.
Con un’amica milanese allibita attraversiamo via Toledo che è un’unica grande performance punteggiata di coreografie come un percorso a tappe: c’è quello con la parrucca di Maradona che balla, quell’altro con i bonghi, il giovane cantautore di strada che annuncia i suoi concerti su Facebook. Nei Quartieri Spagnoli un gruppo di ragazzi beve spritz Aperol guardando la partita sugli smartphone, un fiume di turisti va e viene dal murales di Maradona. Anche qui, l’impressione di irrealtà accuratamente allestita è ovunque.
I festeggiamenti dell’atteso scudetto si inseriscono nello stesso continuum di rappresentazione a ciclo continuo, così fluido che domandarsi se esista davvero un discrimine tra la città reale e la sua rappresentazione non ha più molto senso. Oggi tutto quello che attraversa Napoli viene inglobato nel racconto: i turisti fotografano angoli di strade che non hanno niente di interessante, pizzaioli senza qualità diventano influencer. E io stesso, scrivendo le sceneggiature ambientate a Napoli che mi vengono continuamente richieste, i romanzi con personaggi napoletani e anche articoli come questo, sono un segmento di questa macchina di semiosi illimitata che produce senso e reddito. Mentre anch’io bevo uno spritz con la mia amica nei quartieri, penso: quanto di quello che ho scritto io su Napoli, in questi anni, ha attinto dalla città reale e quanto dal suo racconto così pervasivo – cioè dai sui cliché, dai suoi meme, dai suoi stereotipi reiterati (e anzi spesso fondati da autori non napoletani, come del resto mi sento io)?
La domenica di Napoli-Salernitana io e la mia amica milanese guardiamo la partita allo Scugnizzo Liberato, un bellissimo centro sociale nel quartiere Avvocata. È emozionante. E, anche se nemmeno in questi giorni di tifo collettivo riesco ad appassionarmi al calcio, alla fine mi dispiace che il Napoli pareggi soltanto. Mi sento partecipe di questa malinconia collettiva dei napoletani che per festeggiare davvero dovranno aspettare qualche giorno in più del previsto. Dopodiché nelle settimane successive, questa vittoria funzionerà come un ulteriore acceleratore di mitopoiesi: l’allenatore Spalletti che lascia la città, la scritta “È Meraviglioso Essere Napoletani” che si sparge ovunque nel Paese, il numero della rivista che avete tra le mani. Ma questa domenica, sull’Eurostar che riporta a Roma me e la mia amica milanese, l’impressione è che appena il treno si stacca da Napoli Centrale la città smetta di esistere. Napoli non ha più noi a farle da pubblico e allora si spegne.
C’è una discrasia tra questa immagine della città rutilante, sempre sopra le righe e in favore di social e la Napoli della mia infanzia che ho lasciato a 18 anni: la placida atmosfera postprandiale del Vomero, il quartiere borghese del mio liceo e il formicolio di Soccavo, che è dove sono cresciuto. Il treno supera le geometrie marziane del Centro Direzionale, mi accorgo che del passato ricordo pochissimo. Questa logorrea parla solo al presente, e il passato per forza di cose sbiadisce, non è più così interessante. Non è detto che sia un male. Ma una narrazione a così alto voltaggio ha bisogno di rilanci continui, e sempre «più calore». Difficile immaginare cosa possa esserci dopo lo scudetto. Gli sceneggiatori sono al lavoro.