Le mani della Cina sulla Coppa d’Africa

La stadium diplomacy ha rinsaldato i rapporti tra Pechino e i suoi alleati africani: un altro esempio, l'ennesimo, dell'enorme impatto geopolitico del calcio.

Il prossimo 11 febbraio, quando all’Olympic Stadium Ebimpé di Abidjan andrà in scena la finale della Coppa d’Africa, non sarà un giorno come gli altri per la Costa d’Avorio. Sarà l’ultimo ballo di una festa durata un mese, a prescindere da come andrà a finire la spedizione di Franck Kessié e compagni. Sì, gli Elefanti sono ancora in corsa – miracolosamente, tra ripescaggio come miglior terza e la vittoria in extremis negli ottavi – per riuscire in quell’impresa mancata nell’AFCON ‘84, l’ultima giocata in casa. Ma questo evento ha avuto e avrà un valore molto più significativo rispetto al risultato del campo.  Fino a qualche anno fa, infatti, sarebbe stato molto difficile da immaginare, se non impossibile, che la Coppa d’Africa potesse tornare in Costa d’Avorio. La differenza l’ha fatta – come era ampiamente prevedibile, se non scontato – la presenza dietro le quinte del solito, ubiquo attore non protagonista della Coppa d’Africa: la Cina. La Repubblica Popolare somiglia sempre di più, infatti, al co-host ufficioso del torneo; luci che spesso e volentieri, come nel caso dell’Olympic Stadium Ebimpé, sono proiettate dai riflettori di impianti nuovi di zecca, costruiti ad hoc con risorse, progetti e capitali arrivati direttamente da Pechino. 

Ad Abidjan il cantiere è stato avviato nel 2016, sotto la supervisione del Beijing Institute of Architectural Design e del Beijing Construction Engineering Group. Un investimento da oltre 300 milioni di euro per consegnare al governo ivoriano un’arena da 60mila posti, la più capiente del Paese e tra le più moderne di tutta l’Africa, giusto in tempo per il grande appuntamento. All’inaugurazione dei lavori erano presenti l’allora primo ministro ivoriano Daniel Kablan Duncan e alcuni emissari di Xi Jinping: una testimonianza della cooperazione e dei buoni rapporti tra i due stati, ma anche l’ennesima istantanea della penetrazione di Pechino nell’economia e nella politica africana.

Le stesse cose, più o meno, erano avvenute anche in Camerun, dove si è disputata l’AFCON 2021. E prima ancora in Gabon e Guinea Equatoriale (2012, 2013, 2015), Angola (2010), Ghana (2008), Mali (2002), Burkina Faso (1998). E non è finita qui, anzi: è una lista che potrebbe allungarsi a dismisura, letteralmente. E non soltanto nel continente africano, che pure assorbe il 70% di quella che è stata ribattezzata stadium diplomacy. L’espressione, coniata da John Franklin Copper (China’s Foreign Aid, 1978), inquadra il fenomeno all’interno della politica internazionale cinese, secondo due direttive che ne riassumono l’approccio: “stadium-for-friends”, ovvero l’allineamento diplomatico a Pechino e alla sua One-China-policy, e “stadium-for-resources”, cioè l’apertura di un canale preferenziale diretto in Cina nel commercio di risorse naturali. 

Lo Stade Olympique Alassane Ouattara, ad Abidjan, ospiterà la finale della Coppa d’Africa 2024 (Yelika225/Wikimedia)

«La stadium diplomacy è una parte della politica cinese delle infrastrutture in Africa», spiega Luciano Pollichieni, analista per la Fondazione Med-Or ed esperto di geopolitica africana. «La Cina ha scoperto prima di noi occidentali la domanda per investimenti e realizzazione di infrastrutture nel continente, e la costruzione degli stadi è efficace, perché sono progetti meno complessi di altri come acquedotti o dighe, e perché hanno a che fare con la sfera del divertimento e dell’aggregazione sociale. Il guadagno d’immagine è esponenziale, sia per chi costruisce lo stadio sia per il paese che lo ospita». 

Il caso della Costa d’Avorio è piuttosto esplicativo. Ad Abidjan le radici cinesi sono profonde, come raccontano i buoni rapporti diplomatici che intercorrono storicamente tra i due Paesi e gli aiuti di Pechino durante la guerra civile di inizio millennio. È nell’ultimo decennio, però, che questo legame si è avvicinato a quella tipica relazione che la Cina intrattiene con i propri partner africani: una politica che i critici definiscono “neo-colonialista” e che comprende, oltre alla dimensione commerciale, l’acquisizione e l’esercizio di un soft power comparabile per certi versi a quello americano in Europa con il Piano Marshall, ma in una sua (aggiornata) declinazione. 

Tale strategia è stata portata avanti, in Costa d’Avorio come altrove, anche grazie alla costruzione di alcuni “stadi dell’amicizia”. Si è detto dell’Olympic Stadium Ebimpé, noto anche come Alassane Ouattara Stadium, in onore al presidente che nell’agosto 2018 è volato per un viaggio diplomatico a Pechino, ed è tornato con una serie di progetti per la Coppa d’Africa 2023. E così altri due stadi, su sei totali, sono stati realizzati su misura negli ultimi anni: il Laurent Pokou Stadium (San Pedro) e l’Amadou Gon Coulibaly Stadium (Korhogo), rispettivamente dalla China Civil Engineering Construction Company e dalla China National Building Material. 

La stadium diplomacy è una delle tante sfaccettature – e in alcuni casi il Cavallo di Troia – dell’approccio di Pechino all’Africa Occidentale. Una regione in cui, oltre a espandere la propria sfera di influenza e creare nuovi sbocchi commerciali, Xi Jinping cerca risorse naturali preziose per il fabbisogno nazionale, quali petrolio, minerali e metalli, ma anche prodotti agricoli, alimentari, tessili ed elettronici. È per questo che la Cina ha fatto in modo di realizzare un certo numero di opere, in Costa d’Avorio: ha avviato una sorta di diplomazia delle infrastrutture che non riguarda soltanto gli stadi, ma anche lo sviluppo di strade, centri commerciali e polifunzionali, centrali idroelettriche, linee della metropolitana e altri mezzi di trasporto. L’incessante espansione del porto di Abidjan – che ha raddoppiato le proprie dimensioni grazie al sostegno cinese e alla partnership con l’autorità portuale di Guangzhou – ha inoltre permesso l’affermazione dell’ex capitale ivoriana tra i principali poli commerciali della regione. Tutti investimenti patrocinati dalla Belt-and-Road Initiative, la cosiddetta nuova via della seta, che è stata inaugurata dal Partito Comunista Cinese (PCC) nel 2013 e in cui lo sviluppo delle rotte commerciali è solo il punto di partenza di un ampio disegno geopolitico. La Costa d’Avorio ha aderito alla BRI nel 2017, e se allora le esportazioni di beni e risorse (principalmente cacao, pesce e minerali) verso la Cina ammontavano a 90 milioni di euro l’anno circa, adesso quella cifra si aggira intorno ai 650 milioni di euro. 

Riavvolgendo il nastro fino all’edizione precedente della Coppa d’Africa, ci si sposta in Camerun, un altro emergente esportatore di petrolio che ha aderito, in questo caso nel 2015, alla Belt-and-Road Initiative. Per il torneo di due anni fa, la Cina ha finanziato la realizzazione di quattro nuovi stadi a Yaoundè (60mila posti), Douala (30mila), Limbe e Bafoussa (20mila), dando seguito al progetto da 200 milioni di euro avviato nel 2007 per ristrutturare impianti preesistenti in varie aree del Paese. Il contatore dei nuovi stadi “esportati” da Pechino, così, raggiunge quota sette considerando soltanto le ultime due edizioni. A questi si aggiungono, i sei impianti per Mali 2002 e i quattro ciascuno per Ghana 2008, Angola 2010, Guinea Equatoriale e Gabon 2012, Guinea Equatoriale 2015 e Gabon 2017. Parlare della Cina come co-host ufficioso del torneo non suona più esagerato, vero? 

Lo stadio di Malabo, in Guinea Equatoriale, costruito nel 2007 e qui fotografato nel 2015 (Ben Sutherland/Wikimedia)

Venendo ai giorni nostri, sorprende fino a un certo punto la controversia recente per i giacimenti al confine tra Camerun e Congo, sottratti a un gruppo di società minerarie australiane in favore della Sangha Mining: una neonata realtà camerunense, controllata però dal governo cinese. Così come non stupisce l’intensificazione delle esportazioni verso la Cina di petrolio e manganese dal Gabon (che ha toccato nel 2023 il 15% dell’export nazionale), dalla Guinea Equatoriale (il cui primo partner commerciale degli ultimi vent’anni è proprio la Cina), dal Ghana (che destina al mercato cinese anche la maggior parte dell’oro e di altri minerali preziosi estratti nel Paese, oltre al greggio), e dall’Angola (sulla rotta Luanda-Pechino, che nei dieci anni a cavallo dell’AFCON ha quintuplicato i suoi volumi). Tutti Paesi, questi, che sono stati interessati recentemente dalla stadium diplomacy, e che tuttora si rendono attraenti per la disponibilità di giacimenti petroliferi offshore, controllati da ristrette élite locali. 

La Cina tende la mano a quei governi in cerca di occasioni, come la Coppa d’Africa, per dare impulso all’economia locale e al turismo, o per promuovere l’immagine del Paese all’estero. Pechino, del resto, è il partner ideale per imponenti progetti edilizi come la costruzione di stadi calcistici adatti a eventi internazionali. Presenta le garanzie più solide tra i competitor attivi nel continente, sia per il commitment a lungo termine del governo cinese, disponibile a investire capitali senza l’attesa di un ritorno immediato, sia per l’infinità di opere già realizzate in tutto il mondo, distinguendosi quasi sempre per la puntualità. Ma non solo, offre anche le condizioni più vantaggiose: aziende come la Beijing Construction Engineering Group generalmente prendono in carico l’intero processo, dal rendering alla realizzazione dell’impianto (e talvolta pure la sua successiva manutenzione), mettendo a disposizione manodopera, materie prime, prefabbricati, tecnologie e un’expertise senza eguali nel settore. Un flusso di risorse che negli ultimi decenni ha creato in Africa vere e proprie colonie di ingegneri e operai cinesi. 

Il tutto, poi, si determina a prezzi più che competitivi sul mercato. Secondo alcune stime – inevitabilmente approssimative, trattandosi di accordi bilaterali complessi dal punto di vista finanziario, comprensivi il più delle volte di svariati progetti, e non sempre trasparenti – il pacchetto da quattro stadi confezionato per diversi Paesi ospitanti dell’AFCON si dovrebbe attestare intorno al mezzo miliardo di dollari. In alcuni casi si è trattato di una vera e propria donazione (ad esempio in Uganda, Niger e Gambia), ma il più delle volte l’investimento viene stanziato dalle banche cinesi con prestiti a lungo termine e a tassi d’interessi tendenzialmente molto bassi, come previsto da una serie di accordi stipulati a cavallo del nuovo millennio. E così la Cina ha continuato per decenni a espandere la rete di paesi amici, spesso indebitati per miliardi di yuan, con le risorse naturali come cauzione del prestito: un serbatoio cui Pechino attinge in modo sempre più assiduo, alimentando le accuse di neo-colonialismo cui si è accennato in precedenza.

Altri aspetti critici della stadium diplomacy riguardano, nell’ordine: la sostenibilità, considerando l’enorme dispendio (in ogni senso) necessario per l’edificazione e la manutenzione di questi impianti; la loro effettiva utilità, soprattutto in Paesi dove l’interesse per il campionato locale è limitato e gli eventi internazionali sono poco frequenti; le condizioni dei lavoratori, denunciate a più riprese da diverse NGO tra cui Amnesty International; l’impiego di manodopera locale, non sempre garantito all’interno di progetti che prevedono la spedizione di materiali e personale direttamente dalla Cina. 

L’insieme di questi fattori ha condannato diverse strutture figlie della stadium diplomacy a uno sporadico utilizzo e in alcuni casi alla rovina; allo stesso tempo ha spinto un buon numero di governi, africani e non, a chiedere nuovamente l’ausilio di Pechino – aumentando l’indebitamento – per ammodernare tali impianti e scongiurarne l’abbandono. Una sintesi di tutto ciò è offerta dallo Stade de 4 Août (Burkina Faso), inaugurato nel ‘84, restaurato nel ‘96 e poi di nuovo l’anno scorso, nonostante il sottoutilizzo; oppure dal 24 de Setembro National Stadium (Guinea-Bissau), un altro impianto realizzato e restaurato a più riprese dall’industria cinese. E ancora più emblematiche sono le storie, oltreoceano, di stadi totalmente abbandonati, come quelli in Costa Rica e Giamaica, o il caso del George Odlum Stadium, a Saint Lucia. Una struttura costata 20 milioni di dollari, inaugurata nel 2002, ma dimenticata prima dalla Cina (per l’avvicinamento dello stato caraibico a Taiwan, nel 2007) e poi dallo stesso governo di Castries (che nel 2009, in seguito a un incendio sull’isola, ne ha fatto un ospedale di emergenza e non ne ha mai ripristinato la funzione originaria). 

«Per comprendere il successo della stadium diplomacy e della diplomazia delle infrastrutture in generale», spiega Luciano Pollichieni, «va tenuto a mente che le economie africane devono colmare un divario ampio con il resto del mondo. Quindi si bada molto più alla velocità di costruzione che non alla qualità. E se dopo pochi anni lo stadio perde pezzi, o va ristrutturato in maniera sostanziale, è una cosa accettabile per governi e pubblico locale. Poi non è che ci sia la fila di società occidentali pronte costruire questo tipo di strutture in Africa, anzi».

Stadio di Angondjé, a Libreville in Gabon, inaugurato nel 2011 e costruito in collaborazione con il governo cinese (Ben Sutherland/Wikimedia)

Tutte queste problematiche non hanno affatto scoraggiato Pechino, la cui espansione nel continente è anzi entrata nel vivo con l’inaugurazione della BRI, dieci anni fa. Contestualmente, la stadium diplomacy è diventata un lubrificante onnipresente nelle relazioni di Xi Jinping con i governi africani. «A differenza di quelle cinesi, le aziende occidentali sono orientate soltanto al business: devono fare profitto qualunque sia il progetto a cui partecipano, a prescindere dal beneficio che ne possono trarre i paesi africani», ha spiegato un ministro del governo tanzaniano. Le sue parole rimarcano la distanza tra l’approccio occidentale al continente e quello di Pechino, ma danno anche un’idea del terreno fertile trovato dalla Cina e dalla sua retorica dell’equità e della sovranità nazionale, contrapposta all’interventismo proprio della politica estera occidentale. A latitudini dove è ancora vivo il ricordo della colonizzazione europea. Un altro vantaggio rispetto a molti competitor risiede proprio nei requisiti sociali e civili richiesti dal PCC ai propri partner. O più precisamente nella loro inesistenza, come testimoniano i progetti in Zimbabwe, Ruanda, Congo, Sudan, Kenya e Somalia, per fare qualche esempio di stadium diplomacy. La stessa Confederation of African Football (CAF), del resto, non hai mai visto la regia di Pechino nel proprio evento di punta, la Coppa d’Africa, come un problema. Anzi, se guardiamo al processo di studio dei progetti presentati per la scelta del Paese ospitante, «la CAF non dà importanza a chi si occuperà della costruzione degli stadi». Questa conferma è arrivata dall’ex presidente della Confederazione, Issa Hayatou. «Per noi è importante che gli impianti soddisfino i requisiti che abbiamo stabilito, dopodiché sono i governi a scegliere chi li costruisce».  

Quindi la scelta ricade spesso su candidature made in China, all’interno di accordi bilaterali all’insegna della non interferenza reciproca. Se da un lato Pechino adotta standard poco restrittivi nella scelta dei propri interlocutori, dall’altro la cascata di aiuti e progetti piovuti nel continente africano sottintendono un presupposto cardine della Belt-and-Road Initiative, e in generale della politica estera del PCC: l’allineamento alla già citata One-China policy, dunque il riconoscimento di un unico stato comprensivo anche dell’isola Taiwan; il supporto al governo cinese nelle votazioni fatte nell’ambito delle Nazioni Unite (in cui la Cina è membro permanente del Consiglio di Sicurezza, con diritto di veto, e l’Unione Africana esercita un’ampia influenza), della World Trade Organization e del Comitato Olimpico Internazionale. 

Pur presentando formalmente ogni proposta come priva di vincoli, diversi casi di stadium diplomacy confermano come l’allineamento alla One-China policy sia una condicio sine qua non della cooperazione. Il Senegal, ad esempio, ha vissuto alti e bassi nei rapporti con Pechino, dovuti alle oscillazioni di Dakar sulla questione taiwanese; non per caso, negli anni dopo i due (ri)avvicinamenti sono stati costruiti o ristrutturati diversi impianti nel Paese, tra cui il Friendship Stadium (60.000 posti) nella capitale. In modo simile, quando nel 2007 il Costa Rica ha fatto dietrofront, dopo più di mezzo secolo, troncando i rapporti con Taipei e virando verso la Cina, a San José sono iniziati i lavori per il National Stadium. Un progetto arrivato a compimento nel 2011 e celebrato con un’amichevole inaugurale proprio contro la Nazionale cinese. 

Il voting bloc costituito nell’ambiente diplomatico internazionale è il risultato dell’enorme sforzo profuso dalla Cina sul territorio negli ultimi settant’anni. Un disegno che é stato messo nero su bianco con l’adesione di 50 paesi africani al China-Africa Cooperation Forum, che ha regolamentato donazioni, prestiti, investimenti sui trasporti e progetti edilizi della potenza asiatica nel continente. Come detto, i complessi sportivi – più di 100 in totale dagli anni Settanta ad oggi – rappresentano solo una parte di tutto ciò. Uno studio del 2019 (Architecture of “Stadium diplomacy” – China-aid sport buildings in Africa, T. Charlie Q.L. Xuea, G. Dingb, W. Changa, Y. Wana) conferma però che si tratti di una porzione non irrilevante (12.69%), a maggior ragione considerando l’effetto-domino innescato dall’assegnazione di una competizione continentale – per cui è necessario, appunto,  disporre di impianti adeguati – su tutte le altre sfere dell’edilizia. 

Nel 1971, con l’inaugurazione a Zanzibar (Tanzania) del primo impianto “cinese” in Africa, seguito a ruota da quelli in Somalia, Senegal e Mauritania, iniziava dunque il lungo percorso che nel mezzo secolo successivo ha portato la stadium diplomacy in ogni angolo del continente. Un fenomeno che racconta molto del passato di tutti gli attori coinvolti, e che ci riporta al presente, all’Olympic Stadium Ebimpé. Ricordandoci ancora una volta le potenzialità del calcio come strumento politico. Del resto, se è tanto significativo che questa AFCON abbia luogo in Costa d’Avorio, se per una partita di un torneo africano si fa vedere sugli spalti anche il segretario di stato USA Antony Blinken, e se avete sentito parlare così tante volte di sportwashing negli ultimi anni, ci dovrà pur essere un motivo.