Siamo tutti orfani di Marco Pantani

A vent'anni dalla morte, un ricordo del ciclista italiano più forte e controverso di sempre.

La mia infanzia è finita sabato 14 febbraio 2004. L’epilogo è stato sancito da un gelido lancio di agenzia letto in una trasmissione Rai subito dopo la sintesi di un insignificante anticipo di campionato tra Lazio ed Empoli. Sentire non equivale a capire, come guardare non equivale a vedere: Marco Pantani è morto così, segnato da questa differenza senza che nessuno capisse e senza che nessuno vedesse. Il dolore di quello strappo resiste ancora oggi, vent’anni dopo, nel ricordo di mio babbo che si alza appena dalla poltrona perché non ci crede, ci pensa un attimo e poi va in camera da letto e svegliare mia mamma per dirglielo. La morte di Marco Pantani, come la sua vita e tutto il suo ricordo, ha riguardato e riguarda ancora la memoria collettiva di tutti. 

Magico Pantani

L’appellativo più utilizzato per esaltare Marco Pantani è sempre stato Magico Pantani. Negli anni Novanta lo usavano tutti, anche i giornali, e il club di tifosi fondato in suo onore a Cesenatico si chiamava proprio “Club Magico Pantani”. Non sono mai riuscito a scoprire chi avesse deciso che Pantani era magico e non mitico, grande oppure forte. Era semplicemente e immensamente magico, e non si trova il confine esatto per capire se Marco era diventato magico perché lo chiamavamo così o se questo epiteto derivasse da capacità realmente magiche. Il primo e suo più grande merito è stato quello di donare a tanti un pezzettino diverso della sua carriera. Ogni appassionato conserva nel cuore il suo Pantani e sono tutti veri, tutti reali, tutti giusti, in una memoria che più che collettiva è diventata ecumenica.

C’è il padre di un mio amico che, nel 1994, quasi sviene a vedere quel ragazzino di Cesenatico vestito Carrera mentre manda ai matti Indurain sul Mortirolo; c’è mio cugino che, il 5 giugno del 1999, mi viene a prendere a scuola – era l’ultimo giorno – e sta tutto il tempo a testa bassa perché non vuole dirmi che Pantani non l’hanno fatto partire per l’ematocrito; c’è tutta la schiera dei giovani giornalisti locali che lo segue al capezzale degli incidenti gravissimi, in allenamento e poi alla Milano-Torino pensando che, dopo una roba così, sarà dura tornare indietro e forse è tutto finito; ci sono io che con 39 di febbre, in piena estate, vedo per la prima volta sul divano di casa una tappa del Giro e Pantani scatta per una vita intera devastando tutti ma poi lascia vincere Guerini sul traguardo di Selva di Val Gardena; c’è Romano Prodi, presidente del Consiglio in carica e tifoso di Marco, che nel 1998 sale sul palco allestito in piazza Andrea Costa a Cesenatico per la più grande e incredibile festa mai realizzata in Italia per uno sportivo. Dalla finestra del Grand Hotel lo guardavano Felice Gimondi, Azeglio Vicini, Dario Fo e per strada un mondo intero, rosa del Giro e giallo del Tour appena vinto; c’è Giorgio Martino della Rai invitato a una festa per Marco dal “Panathlon Club Cesena” al ristorante Ponte Giorgi di Cella – Romagna collinare, profonda e un po’ sperduta – che chiama dal fisso del locale la redazione del Tg2 perché datemi la linea che Pantani ha appena annunciato che va al Tour, e ci va per vincere; ci sono i signori e le signore che, se lo vedono entrare nei bar della collina mentre si allena da solo, gli danno qualcosa da mangiare perché è in giro da delle ore e non si è portato dietro i soldi «ma sono Marco Pantani, poi torno a pagare», e tornava sempre; «c’è la Croma gialla del Club Magico Pantani ancora parcheggiata nel centro di Cesenatico davanti all’officina di Vittorio Savini», che con Pantani ha condiviso i successi più belli e poco lontano la sua statua in mezzo a una piazza che tra poco porterà per sempre il suo nome; c’è lui che canta la sigla del Giro, lui che va ospite a Mai Dire Gol, lui che vorrebbe portare una canzone al Festival di Sanremo e non sappiamo bene se l’hanno scartato o alla fine per fortuna ci ha rinunciato; ci sono tutte le immagini iconiche e grattate dal tempo di lui con la bandana, lui con la salopette e le stampelle mentre esce infortunato dall’ospedale, lui con il costume Sundek rosa che fa riabilitazione in piscina, e di lui nel giallo della Mercatone Uno che prova di nuovo a fare il ciclista e si è fatto crescere i baffi ma è anche un po’ ingrassato e non è più il Pirata tutto nervi e muscoli.

Si potrebbe continuare per pagine e pagine perché tutti hanno un racconto su Pantani, la loro storia personale e privata, la loro storia vera, oppure di fantasia, ingigantita, colorata. Ma Pantani è magico ed ecumenico per questo, perché è racconto e leggenda che contiene dentro tutto. 

È stato un attimo 

Il tocco di Marco Pantani è stato il 1998 e davvero – questa non è leggenda – sul lungomare di Cesenatico non si trovava una sedia libera per guardare le tappe nei piccoli televisori dell’epoca che gli stabilimenti balneari accendevano subito dopo pranzo. Gianni Mura, che l’ha chiamato Pantadattilo e ne è stato uno dei cantori più ispirati ed equilibrati, era come sempre inviato in Francia, e racconta in molti articoli che Pantani oscurò anche i Mondiali di calcio, che divenne il pelato più famoso del mondo, anche più di Ronaldo il Fenomeno. Il ciclismo era sempre stato uno sport del popolo, ma prima di lui non era mai stato così popolare. Pantani non solo lo guardavano tutti, ma lo tifavano tutti, lo tifavamo tutti. Non capisco nulla di ciclismo, di tecnica, di meccanica, ma la pedalata di Marco l’avrei riconosciuta tra mille, con quel polpaccio lungo e sottile che spinge sulla punta dello scarpino e va, lascia lì mezzo mondo e va. Con il sole, con la pioggia, in salita, in discesa, dopo che gli è saltata la catena, anche quando la voce di Adriano De Zan allarmò l’Italia dicendo che era caduto invece si era solo fermato per mettersi la mantellina con tutta la calma del mondo. 

Avere sette anni a Cesenatico nel 1998 significava non sapere che attorno esisteva un universo. Cesenatico era tutto il mondo, tutto il mondo era Cesenatico e ogni persona parlava con lo stesso accento, mangiava le stesse cose, faceva le stesse cose. Lo pensai fino a che non vidi Pantani in televisione mentre tutti lo chiamavano lo scalatore romagnolo o ancora meglio Pantani da Cesenatico. Mi ha insegnato a capire chi eravamo, da dove venivamo. Lo ha fatto quando vinceva e anche quando poi niente è più andato bene. La Romagna colorata ed entusiasta, ma anche quella eccessiva e irrazionale, la Romagna orgogliosa e geniale ma anche quella che vuole essere protagonista per forza, la Romagna appassionata ma anche quella che non capisce il momento giusto e il confine entro cui fermarsi. Davanti a Pantani non c’è stato scampo, spalle al muro, e anche adesso il suo popolo si divide a metà: chi ne parla sempre e comunque, e ne ha fatto quasi una ragione di vita, e chi sta in silenzio e quando gli fai una domanda ti bisbiglia che di Marco lui non parla più perché chi lo ha conosciuto veramente sa che lui avrebbe voluto così. Non c’è un torto e non c’è una ragione: rimane addosso, ogni volta, il ricordo insieme al rimpianto. 

Una delle sue imprese più epiche, forse la vittoria a cui sono più affezionato – anche se è avvenuta nel maledetto Giro del 1999 – rimane quella a Oropa. Quando, a otto chilometri dalla fine, gli saltò la catena per un cambio sbagliato e lui si rimise in sella con pazienza. La squadra lo aiutò a rientrare in gruppo, la gente ai lati della strada impazzì a vederlo così forte, così potente e leggero, così più forte di tutti. Pantani superò tutti e vinse anche quella volta, rendendo un’impressione di imbattibilità mai vista prima. Se l’è portata dietro, forse troppo, anche nella vita privata. Tutti pensavano che ce l’avrebbe fatta, che avrebbe rimontato ogni volta: dalla vergogna perché le persone pensavano fosse solo un dopato, dalla solitudine, dalla cocaina. Ci sono delle cose però che non si possono aggiustare, non si possono rimettere a posto.

Ancora oggi, Marco Pantani è l’ultimo ciclista che è riuscito a vincere Giro d’Italie e Tour de France nello stesso anno: il 1998 (Tom AbleGreen/Allsport)

Il senso di una fine

Quasi tutti i grandi campioni dello sport si sono meritati un giusto addio: l’ultima lacrimosa partita di Federer, il giubileo tottiano dentro all’Olimpico a cui scoppiava il cuore, la malinconica camminata di Van Basten con il suo giubbottino di renna. E così tanti altri, in grande o in piccolo. Pantani invece se n’è andato dal ciclismo con un 14esimo posto al Giro d’Italia del 2003, senza che nessuno potesse sapere che non l’avremmo mai più visto pedalare. L’ultima tappa, l’arrivo in gruppo, l’ultima volta in cui probabilmente ha indossato una divisa da ciclista ed è montato in bicicletta. Non lo sapeva lui, non lo sapeva nessuno, non ci hanno avvertito di goderci quelle ultime scintille.

Si sarebbe meritato un altro finale, magari quel duello con Armstrong al Tour che, battuto, disse senza eleganze di aver fatto vincere l’elefantino – come lo scherniva lui per le orecchie e sventola. Oppure il Giro in cui da gregario aiutò Garzelli a vincere in mezzo a delle strade piene di tifosi che, però, non avevano occhi solo per lui. Pantani invece è svanito nel nulla, dentro una nuvola di amici che forse non lo erano fino in fondo, di depressione, di fantasmi, di dipendenze da cui non è mai riuscito a liberarsi. Al netto dei processi e della battaglia legale che sta portando avanti la sua famiglia per provare a dimostrare qualcosa che ancora non è mai stato dimostrato, l’unica cosa che non riusciamo a toglierci di dosso della morte di Marco è una gran tristezza. Il più forte ciclista italiano della storia è morto da solo, la sera di San Valentino, dentro un residence di Rimini, a pochi chilometri dalla villa di Cesenatico in cui viveva con la sua famiglia.

A dirlo, a pensarlo, a scriverlo, rimane addosso un dolore difficile da comprendere, un senso di solitudine e che non passa da vent’anni e non passerà mai. I complotti, la cocaina, le ombre, gli squallidi servizi televisivi di trasmissioni orrende vengono dopo quella desolazione, dopo il funerale che invase di gente il Porto Canale di Cesenatico, dopo il dolore della sua famiglia, dopo lo Spazio Pantani, un museo dedicato in cui ancora si svolgono pellegrinaggi infiniti che poi finiscono al cimitero cittadino che ha i cartelli per indicare la sua tomba, per orientarsi dentro al dolore e sapere dove andare. Ecco, in questi vent’anni da orfani collettivi non abbiamo più saputo dove andare. E il ciclismo ci è piaciuto ancora, ci siamo appassionati ma non così. È stato come vedere uno sport sbiadito, con i colori tenui e le emozioni trattenute. Non è colpa di nessuno ma è così, oggettivamente e tristemente.

In definitiva, la grandezza di Marco l’ho capito un giorno di qualche anno fa in un bar della provincia romagnola in cui mi ero rifugiato per un caffè dentro a un afoso pomeriggio estivo. Si parlava della famosa intervista che Pantani rilasciò a Gianni Mina pochi giorni dopo Madonna di Campiglio, chiusi nel salotto di casa a Sala, una frazione romagnola nel primo entroterra. Il dialogo faceva più o meno così:

«Te ci pensi che Pantani è riuscito a far venire Gianni Minà a Cesenatico?». 

«No, l’ha fatto venire a Sala di Cesenatico».

«Per me uno come Gianni Minà a Sala non c’era mai venuto». 

«E dopo non ci è mai più tornato».