Abbiamo visto tanti unicorni negli ultimi anni, ma lui somiglia più a un alieno». Non aveva usato giri di parole LeBron James, uno che sa cosa significhi rivoluzionare il basket, per descrivere le sue sensazioni su Victor Wembanyama, un anno fa. Allora il francese, appena maggiorenne, giocava nel Boulogne-Levallois Metropolitans 92, modesta realtà cestistica parigina, dove ha mosso i suoi ultimi passi di avvicinamento alla NBA. Passi lunghi e ben distesi, quelli di un ragazzo di 225 centimetri di altezza e quasi due metri e mezzo di apertura alare. Con gli occhi del mondo intero addosso. Wemby ha dovuto abituarsi presto alla sua vita da promesso talento generazionale, a un’esposizione mediatica asfissiante, simile per certi versi alla situazione che proprio “The Chosen One” aveva vissuto nel 2003. E oggi, dopo lo sbarco a San Antonio con la scelta numero uno al Draft e i primi assaggi del suo potenziale in campo, i discorsi su Wembanyama non sono molto diversi. «Cambierà il gioco, al cento per cento, quindi mettetevi comodi e godetevi lo show», ha detto Nikola Jokic, un altro MVP e campione NBA che ha voce in capitolo in materia di rivoluzioni cestistiche.
Nel 2023 anche la sorte, accodandosi a Madre Natura, ha sorriso all’enfant prodige, assegnando la prima scelta assoluta nella Draft Lottery agli Spurs, e a lui il lusso di avere come primo head coach una leggenda del gioco. Quel Gregg Popovich che, a 74 anni, sembrava vicino al ritiro, ma che evidentemente non si è sentito di scendere dalla nave proprio ora, con un orizzonte tanto intrigante davanti. Sembra il punto di partenza ideale, sulla carta, per il percorso del francese; eppure, nonostante l’aria di festa che ha portato, il momento storico della franchigia è abbastanza delicato. Il vuoto post-Popovich si avvicina e le quattro annate consecutive senza playoff, che diventeranno presto cinque essendo i nero-argento una delle peggiori squadre della lega, sono un habitat tutt’altro che familiare.
Gli Spurs hanno rappresentato per decenni una rarità nel panorama sportivo americano, grazie a una perenne competitività (solo quattro volte fuori dai Playoffs, e mai due in fila, dal 1976 al 2019) e alla longevità della Dynasty fondata intorno a Tim Duncan, che ha portato a 22 post-season consecutive e soprattutto alla vittoria di cinque titoli. Tutto ciò in uno small market, e nonostante la volatilità delle gerarchie prevista dal sistema NBA. In Texas l’auspicio è che Wembanyama raccolga il testimone di Duncan, Parker e Ginobili, edificando il prossimo ciclo vincente dell’organizzazione. In un modo, però, del tutto diverso, che trova espressione nel contrasto tra i rispettivi protagonisti: da una parte Duncan, “Big Foundamental”, uno che sul parquet «faceva solo cose essenziali», per dirla con parole sue; dall’altra Wembanyama, l’atleta meno convenzionale e dal colpo d’occhio più scioccante mai visto su un campo da basket. «Lasciate che Victor sia Victor», risponde Popovich quando gli viene chiesto se vede nel suo nuovo nipote francese l’erede del suo precedente figlio caraibico. «Non voglio limitarmi a ciò che è già stato fatto», replica il ragazzo, «non voglio limitarmi a ciò che è convenzionale». La giovane stella degli Spurs è quanto di più lontano dalla convenzionalità si possa immaginare, la forma più estrema di freak, come dicono negli States, che la NBA ricordi. Uno scherzo della natura per cui è difficile trovare paragoni nella storia del basket, e in generale nello sport.
Semplicemente, le sue dimensioni fisiche sono fuori scala, nonostante un contesto abitato da veri e pronti e giganti, e la pallacanestro è un gioco che premia crudelmente la verticalità; ma non si tratta solo di questo, è l’uso che Wemby fa di quella lunghezza, di quegli arti esili che sembrano prolunghe infinite, a renderlo una celebrazione della stranezza e al tempo stesso un’osservazione scientifica vivente. E se la NBA ci aveva ormai abituato ai cosiddetti unicorni (semplificando, giocatori che combinano misure da lungo e qualità da esterno), nessuno ci aveva preparato a qualcosa del genere, alla fluidità con cui Wembanyama porta a spasso e controlla quel corpo. Ci si aspetterebbe i movimenti macchinosi di una gru, alla Boban Marjanovic, non l’elasticità di un contorsionista (googlare “Wembanyama flexibility” per credere).
Già nelle prime settimane, nonostante una squadra incapace di semplificargli la vita, il francese ha mostrato l’impensabile gamma di skills che porta in dote. Difensivamente parlando, è una presenza di enorme impatto: colleziona quattro stocks (stoppate più palle rubate) a ogni partita, ed è solo la punta dell’iceberg della deterrenza e dell’intimidazione che esercita su avversari di qualsiasi ruolo e taglia. Oltre a raggiungere vette proibitive per chiunque, infatti, Wemby dispone di mobilità laterale, rapidità e tempismo, sa muovere i piedi anche lontano dal canestro e, come se non bastasse, legge il gioco con più maturità di quanto dica l’anagrafica. Una presenza che infonde sensazioni claustrofobiche negli avversari, costretti a ripensare distanze e geometrie del campo. E se è vero che l’esperienza ha un ruolo fondamentale nella maturazione difensiva dei giocatori, e quindi che la versione attuale dovrebbe essere il peggior Wemby che vedremo negli anni, è quasi inevitabile alzare all’inverosimile le aspettative. Siamo davanti al possibile miglior difensore in aiuto, e forse non solo in aiuto, di tutti i tempi? È una domanda lecita.
Proprio per questo, sul lungo termine, è probabile che sarà lo sviluppo di Wembanyama nell’altra metà campo a decretare la profondità del suo impatto sulla lega. Le certezze sono meno in attacco, ma i presupposti per pensare in grande, e ovviamente fuori dagli schemi, non mancano. Nei primi cinquanta giorni di rodaggio ha viaggiato intorno ai 20 punti, 10 rimbalzi e 2,5 stoppate di media, bussando alla porta dell’esclusivo club di chi ha concluso una rookie season con cifre simili: David Robinson, Duncan, Shaq, Olajuwon, Alonzo Morning. La sua efficienza offensiva, però, è stata – come prevedibile – insufficiente, complice un contesto che lo aiuta poco nella creazione di vantaggi e ne espone tutta l’immaturità. Non parliamo di un prodotto finito come poteva sembrare LeBron nel 2003, insomma, ma è bastata una manciata di partite per accendere la fantasia sul potenziale di Wembanyama anche come macchina da punti. Come nella serata in cui ne ha segnati 38 contro i Suns, la sua miglior prestazione finora: per due ore, il mondo del basket si è fermato a guardare, incredulo, un atleta di tali dimensioni trattare e passare la palla, correre in transizione, segnare a ripetizione nel pitturato, da fuori, in una varietà di situazioni e sopra (letteralmente) a qualsiasi difensore. Non c’è stato un singolo analista che quella sera non abbia usato l’espressione never seen before.
Never Seen Before, precisamente
Quanto migliorerà nella creazione per se stesso, nel tiro da fuori, nel pitturato? Che risultati daranno i chili che inevitabilmente – ma non eccessivamente, né precocemente – metterà su, nella gestione dei contatti e nella fluidità dei movimenti? Dalle risposte a queste domande passa una parte del destino di Wembanyama e degli Spurs. Nella speranza che la sua stranezza fisica non si trasformi in vulnerabilità, e che gli infortuni non divorino la carriera di questo ragazzo come accaduto, purtroppo, ad alcuni freak prima di lui. Ad oggi, sappiamo per certo di essere davanti a un esperimento sportivo senza precedenti. Diverso, ad esempio, da quello di fenomeni come LeBron, Durant e Antetokounmpo, che hanno cambiato il gioco con combinazioni di doti fisiche e tecniche mai viste.
Per la percezione di corpo alieno rispetto a tutti quelli che lo circondano, l’unico paragone sensato probabilmente è con Wilt Chamberlain; o più recentemente, forse, con Shaquille O’Neal e Yao Ming. Wemby è un vero e proprio shock estetico, ed è il bello di questo viaggio. Anche se, col passare del tempo, potrebbe piacere sempre meno. «È un problema», avverte coach Tyronn Lue, «è un super talento, tutto quello che sa fare in campo può creare tante difficoltà, e da qui può solo migliorare. Meglio vincere ora, perché tra tre o quattro anni…».