Nemmeno Brexit è riuscita a intaccare il dominio della Premier League sul calcio europeo

Brexit aveva un’essenza illogica e illogico è stato il suo impatto sul calcio inglese: la Premier continua a essere ricchissima, cosmopolita e soprattutto potente.

“Fuck off Europe, we voted out!”. Nei giorni successivi al referendum sulla Brexit del 23 giugno 2016, in Francia era facile imbattersi in questo coro – cantato specialmente da gruppi di tifosi inglesi sbronzi, ammassati fuori dai bar ma specialmente lungo la zona del vecchio porto di Marsiglia. Un coro che sembrava essere diretto non solo alla polizia francese, ma anche agli abitanti del luogo, in larga maggioranza arabi, giovani con cui si erano scontrati nei primi giorni degli Europei. Un’immagine che, in tutta franchezza, creava un po’ di confusione. Spesso non è facile empatizzare con i modi criminali dei poliziotti francesi, ma nel novembre precedente un’amichevole tra Francia e Germania allo Stade de France era stata presa di mira da attentatori suicidi, l’inizio di una notte di terrore culminata con uomini armati che hanno fatto irruzione dentro il Bataclan uccidendo 89 persone.

Da allora la Francia era in uno stato di allerta massima, e se la polizia era stanca, nervosa e irritata dall’aggressione di alcuni tifosi inglesi rancorosi, non erano poi così tanto da colpevolizzare. Il momento più violento del torneo è accaduto l’11 giugno 2016, quando un gruppo di ultras russi ha attaccato i tifosi inglesi allo Stade Vélodrome di Marsiglia. Sembrava un errore di calcolo. Una volta, diciamo trent’anni fa, c’era una certa idea di orgoglio e prestigio nell’attaccare i tifosi inglesi, ma vedere questi muscolosi e allenatissimi russi vestiti interamente di nero, mentre filmavano tutto con le loro Go-Pro, festeggiare per aver rubato una bandiera a Dave e Terry, una coppia di contabili quarantenni leggermente sovrappeso arrivati da Macclesfield, era alquanto bizzarro. Questo non vuol dire che i tifosi inglesi non siano capaci di essere profondamente sgradevoli – lo sono in tutto e per tutto – ma a) i russi sembravano non volersela prendere con i ragazzi più giovani e prestanti e b) anche se lo avessero fatto, i piantagrane inglesi di oggi sono una marmaglia di ragazzi che alzano il gomito più del dovuto (spesso unito al consumo di cocaina) piuttosto che firm spietate.

Ma ovviamente il senso di questi attacchi non avveniva all’interno della tradizionale scena hooligan: era una violenza mirata a creare caos, come parte della campagna generale di Vladimir Putin nel destabilizzare l’Europa. Ma probabilmente l’elemento più inquietante è successo una settimana prima del voto, il 16 giugno. Quella sera dovevo seguire la partita tra Germania e Polonia allo Stade de France, così a pranzo ci riunimmo con altri giornalisti per guardare in tv il match dell’Inghilterra contro il Galles, in un bistrot di Pigalle. L’Inghilterra vinse in rimonta 2-1, ma la notizia più significativa arrivò nel secondo tempo: una deputata britannica di nome Jo Cox era stata uccisa per strada da un tale Thomas Mair, che aveva urlato “Britain First” prima di spararle due volte e infliggerle quindici coltellate.

Ingenuamente, pensai che quell’accaduto avrebbe portato a una repulsione nei confronti di chi perorava la causa della Brexit, assicurando una vittoria al fronte del Remain. Mi sbagliavo. Mair, venne fuori, era un esempio estremo di un gruppo molto più ampio. La minaccia russa forse non era del tutto compresa fino a quel punto, ma quella islamica aleggiava sin dai bombardamenti in metropolitana del 2005. Una visione razionale suggerirebbe che l’Unione Europe  possa rappresentare un baluardo contro tutto ciò, ma in realtà la campagna del Leave riuscì a presentare l’Unione Europea come il simbolo di quelle forze straniere che in qualche modo stavano soffocando la Gran Bretagna, convincendo gli elettori che, anche se i finanziamenti europei miglioravano le aree più povere del Paese, l’UE fosse responsabile del fatto che alcune fasce della popolazione si sentissero lasciate indietro, oltre che insicuri di fronte alla globalizzazione, preoccupati per l’immigrazione di massa, la riduzione dei salari e l’aumento del costo delle case.

Se si può rintracciare una logica, in altre parole, è che quei rozzi tifosi che punzecchiavano la polizia e i teenager musulmani, e che se la davano a gambe con i russi, vedevano tutto questo come un unico fronte straniero, e perciò nemico dell’ambizioso progetto del Leave di ristabilire la grandezza della Gran Bretagna. Otto anni dopo, la Brexit si è dimostrata un fallimento sotto tutti i punti di vista, bruciando quattro Primi Ministri, screditando l’apparato politico, causando una diminuzione del PIL e, ironia delle ironie, favorendo un incremento dell’immigrazione. Ma con il calcio non c’era bisogno di aspettare otto anni per interpretare il disastro della Brexit. La prima partita dell’Inghilterra dopo il referendum fu la sfida degli ottavi di Euro 2016 contro l’Islanda. Una sconfitta per 2-1. Eppure il calcio mostra meglio di qualsiasi altra cosa l’impatto confusionario della Brexit. All’indomani del voto, non c’erano che previsioni disastrose per il calcio inglese. Con la prevedibile recessione economica, i club di Premier League sarebbero stati ancora in grado di assicurarsi i giocatori migliori? Cosa sarebbe successo con i permessi di lavoro, soprattutto quelli dei calciatori più giovani, ora che i lavoratori comunitari non avrebbero più potuto liberamente lavorare nel Regno Unito?

Nella pratica, il governo, riconoscendo il potenziale di soft power della Premier League, ha mantenuto un regime lavorativo favorevole per calciatori e allenatori, in modo che nessuno, almeno ai più alti livelli, potesse essere respinto. Anche se un giocatore scende in campo poche volte, il solo fatto che un club di Premier voglia ingaggiarlo è un elemento sufficiente per ottenere un’esenzione. Alla prima questione è più difficile rispondere, anche solo perché la Premier League è solo teoricamente il campionato inglese. Solo il 25 per cento dei club di Premier hanno proprietari britannici. All’incirca il 30 per cento dei giocatori arrivano dalla Gran Bretagna. Stessa percentuale per gli allenatori inglesi. I diritti televisivi esteri valgono più o meno quanto quelli del Regno Unito. Pur non essendoci numeri ufficiali, in qualsiasi stadio è facile accorgersi della presenza di numerosi tifosi non britannici. La Premier League è un campionato mondiale organizzato in Inghilterra. In parte perché rimane (relativamente) competitivo e in parte perché è stato commercializzato in maniera eccezionale, aveva già un vantaggio economico grazie ai diritti televisivi che ha permesso ai club di cavarsela nelle difficoltà del periodo del Covid molto meglio di qualsiasi altra lega – anzi, rafforzando quel vantaggio. Aggiungiamoci i capienti portafogli dei loro proprietari, allettati dal contesto normativo permissivo, ed è davvero complicato per gli altri Paesi riuscire a competere con il loro potere di acquisto.

C’è una certa ironia nel contrasto tra questo e i piccoli inglesotti impettiti della brigata “Fuck off Europe” a Marsiglia. La Premier League è un mondo sorprendentemente cosmopolita, al punto da aver sviluppato una propria lingua – qualcosa che somiglia molto all’inglese corrente, ma non lo è del tutto. Qualche anno fa, se un allenatore avesse detto «volevamo farli soffrire», sarebbe suonato scandaloso alle orecchie inglesi – «Vogliamo che provino dolore? Vogliamo torturarli?». Ora si è capito che il verbo spagnolo sufrir, anche se molto simile all’inglese suffer, quando viene usato in modo intransitivo (come in “Abbiamo davvero sofferto oggi”) ha un significato diverso dal modo transitivo – non “vogliamo fargli del male”, ma “vogliamo che lavorino duramente”. Anche se non è entrata del tutto nell’uso comune, la frase “in un buon momento” è pure derivata dallo spagnolo. Una decina d’anni fa non avrebbe avuto senso, oggi è utilizzata nel significato di “in un ottimo stato di forma”.

Il calcio è diventato uno degli ambiti più internazionali della vita inglese – e una parte fondamentale della Champions League e delle altre competizioni europee. È un cliché che i tifosi abbiano una contezza della geografia molto migliore di chi non lo è, ma è vero: è quasi un istinto per i tifosi discutere di trasferte a Lipsia, oppure a Belgrado o a Istanbul. La Champions è una ricompensa esotica per aver fatto bene in campionato. E mentre i club più importanti possono snobbare le partite di Europa League o di Conference, la scorsa stagione il West Ham e in questa il Brighton hanno dimostrato quanto possa essere divertente una campagna europea per una tifoseria non abituata al successo. Non c’è alcun motivo per i club inglesi di ritirarsi dall’Europa – così come, vista la loro ricchezza, non c’è motivo per l’Uefa di voler escludere i club inglesi. L’Uefa, dopo tutto, non è l’Unione Europea e inoltre la retorica anti-europea del partito conservatore oggi al governo probabilmente verrà ridimensionata dalle elezioni politiche di quest’anno, quando, a meno di clamorosi ribaltoni nei sondaggi, i laburisti prenderanno il potere.

Ma quello che potrebbe rappresentare una minaccia nella testa dei tifosi inglesi per il culto della Champions League è il senso del dominio della Premier League. Questa stagione è stata un po’ particolare perché tre delle squadre più godibili d’Europa – Bayer Leverkusen, Girona e Liverpool – non partecipano al torneo, mentre squadre come Barcellona, Napoli, Manchester United e Newcastle hanno tutte avuto difficoltà sin dall’inizio. Ma poi c’è anche una questione di monotonia. In tutta onestà, il Manchester City ha faticato più contro il Brentford che contro il Copenhagen. Se la Gran Bretagna si ribella contro il calcio europeo, è qualcosa che non ha a che fare con l’ideologia quanto con un semplice riconoscimento di qualità. Il pericolo è che che il banco di prova definitivo possa essere più la Premier che la Champions. Nell’insulare e illogica Brexit inglese il campionato mondiale potrebbe mettere in ombra il vanto europeo.