Riuscite a pensare a qualcosa di più “europeo” della Champions League?

La Champions League ha costruito molto di più di una semplice competizione calcistica: ha ideato un fascino, che parte dal campo e si irradia su tutto il resto. Plasmando un’idea di Europa che è più sostanziale della realtà politica stessa.

Cem-pions-lìg!, proclama il cameriere cinese del sushi all-you-can-eat sotto casa quando cerca di attaccare bottone con sconosciuti avventori del suo ristorante in zona stadio, lì chiaramente per un preciso motivo: occupare il tempo che gira attorno a un Milan-Borussia, un Inter-Benfica, un Milan-Salisburgo purchessia, una instagrammabile e totalizzante “San Siro experience” che li faccia sentire un po’ più europei. Se, come dice la leggenda, San Siro è la seconda opera d’arte più ammirata di Milano dopo il Cenacolo e se i turisti riempiono ineffabilmente gli Airbnb della zona ovest in affitto a prezzi da Upper East Side, è anche merito della Champions League.

Ma già mezzo secolo fa un tipo geniale cantava che Milano era “vicina all’Europa”. Invece il vero capolavoro della Champions League è stato accorciare le nostre distanze da tanti posti infelici che hanno trovato cittadinanza grazie al pallone. La mappa sentimentale delle nostre vite di calciofili è piena di luoghi che mai avrebbero suscitato il nostro interesse senza l’inno di Georg Friedrich Händel. E non è un discorso di reddito o di PIL: si tratta di posti anche ricchi o perlomeno agiati eppure invisitabili, da Eindhoven a Gelsenkirchen, da Newcastle a Vila-Real, la Sassuolo spagnola da 50mila abitanti che tutti descrivono come bruttissima e che per due volte in vent’anni è stata teatro di una semifinale. La Champions League riesce nel gioco di prestigio di far scomparire i 6.173 chilometri che separano Lisbona dalla capitale del Kazakistan, per un Astana-Benfica (fase a gironi 2015/16) che è tuttora il record di maggior distanza geografica tra due squadre nella storia del torneo. La Champions League rende tollerabile e benvenuto qualsiasi tipo d’immigrazione come nessun politico di Bruxelles s’è mai sognato di fare, dando cittadinanza calcistica a esseri umani che spaziano dalle Isole Comore (El Fardou Ben, Stella Rossa 2018/19) ad Haiti (Wagneau Eloi, Lens 1998/99), passando per il Madagascar (Eric Rabesandratana, PSG 1997/98). La Champions League è persino riuscita ad appassionarci alle nebulose istanze politiche dell’inospitale Transnistria, casa dello Sheriff Tiraspol cui tre anni fa ha fatto visita l’Inter, un mese dopo che avevano sbancato il Bernabeu con un gol al 90′ del centrocampista lussemburghese Sébastien Thill. E non sapremmo riassumere meglio la magia e l’illusione della Champions League se non ragguagliandovi sulle gesta di un lussemburghese in Transnistria.

A intervalli regolari – lo sappiamo bene – salta su qualcuno a proporre di abbattere le vecchie statue. Quasi sempre si tratta di proprietari di club piuttosto stirati che tentano di ammannirci la storiella delle partite troppo sbilanciate, “che senso hanno quattro mesi pieni di Barcellona-Anversa o Manchester City-Stella Rossa?”. Il punto è ragionevole, e difatti in molti ci cascano. Non è questa la sede per spiegarvi quanto sarebbe spoetizzante, e di conseguenza noioso, un calendario in cui ci fossero un Clásico o un Bayern-PSG alla settimana, svalutandone l’appeal fino a spolparli e renderli irrilevanti. Ci limiteremo a un discorso di civiltà, perché in questi trent’anni la Champions League è stata la cosa che insieme a Schengen ha unito l’Europa molto più di quanto abbiano fatto l’economia e la politica. Era nata contestualmente a un film tanto romantico che si chiamava Prima dell’alba (Richard Linklater, 1995), in cui due sconosciuti si incontravano su un treno nella vecchia Europa e si innamoravano a Vienna per una notte e mai più: una storia invecchiata e resa inattuale dalle nuove tecnologie.

Invece il fascino della Champions League dura ancora. Non che in origine fosse una visione idilliaca alla Altiero Spinelli: basti ricordare che il primo a cui venne in mente si chiamava Silvio Berlusconi, e più non dimandare. Si trova traccia di una prima bozza in un’intervista al Corriere della Sera del 16 maggio 1988, il giorno dopo aver vinto il suo primo scudetto a Como: «Dobbiamo trasformare la Coppa dei Campioni in un campionato continentale: andremmo a giocare non in qualche sperduto paesino di provincia ma a Madrid, a Barcellona, a Lisbona. Le formazioni di un certo livello devono avere il diritto a competere tra di loro: purtroppo nelle coppe europee prevale l’imponderabile», e in quel purtroppo sta un dibattito di trentacinque anni tra le ragioni del cuore e quelle del portafoglio. Due giorni dopo aveva addirittura ricevuto ad Arcore il presidente del Real Madrid Ramón Mendoza per rifinire insieme i dettagli di un progetto di un’esattezza impressionante: una mega-coppa a 32 squadre divise in otto gruppi di quattro squadre l’uno, ricorda qualcosa? Poi Berlusconi e Mendoza fecero la loro ambasciata al vecchissimo presidente UEFA Jacques Georges, solo per esserne respinti con cortese e notarile freddezza, un trattamento un po’ più felpato rispetto ai toni muscolari che Ceferin riserva oggigiorno ai suoi nemici.

Ma a ben vedere, era stato un altro grande milanista a parlarne per primo, addirittura nel 1964 – quel diavolo di un Gipo Viani, antesignano di tutti i Florentinos di questo mondo. «Ci vuole il campionato del MEC!», aveva detto. «Non vi accorgete perché la gente diserta lo stadio? Date al pubblico un Real Madrid, un Benfica, un Dukla Praga, un Dundee e vedrete che gli stadi torneranno a riempirsi». Questo quartetto di big, che tenerezza: due risparmiate dall’usura del tempo, due sommerse dalla polvere di un passato che non tornerà più, e che ci fa guardare con ironico sospetto alle parvenues di oggi, perché ogni tanto i cieli d’Europa si fanno attraversare da queste comete (ricordate il Malaga dello sceicco Abdullah Al Thani, scippato della semifinale nel 2013 e subito dopo smantellato dal suo imprevedibile proprietario?).

L’Europa è venuta su col suo passo, e ora che il monopolio dell’UEFA è stato messo in discussione dalla sentenza di un tribunale ufficiale che profuma (o puzza, a seconda dei punti di vista) di de profundis, sarà anche giusto rendere l’onore delle armi ai parrucconi di Nyon. La Champions League 1992-2024 è stata una goduria, inaugurata non a caso dai quattro gol di Van Basten al Goteborg la sera del 25 novembre 1992: i primi e ultimi gol del Cigno in Champions, nonché i suoi ultimi in assoluto a San Siro. Dopo le prime stagioni di assestamento, con esperimenti discutibili e subito abbandonati come le due semifinali a gara secca in casa della vincitrice del girone (Milan-Monaco e Barcellona-Porto, 1994), ogni stagione e ogni fase hanno avuto i loro momenti di culto: gli juventini ricorderanno con affetto il gol su punizione al 90′ dello jugoslavo Djordjevic che nel 1997, in Olympiakos-Rosenborg, dunque in un altro stadio e in un altro girone, li qualificò ai quarti per effetto del complicatissimo meccanismo delle migliori seconde. Gli interisti più stagionati conserveranno il piccolo incubo degli allucinanti minuti finali di Dinamo Kiev-Inter 2003, quando il pareggio non serviva a nessuna delle due squadre e sull’1-1 tutti i giocatori si scapicollarono da una parte e dall’altra, con assurdi contropiedi sprecati dall’Oba Oba Martins di turno. I tifosi della Fiorentina masticheranno ancora amaro per il biscottone consumato nel 2000 da Manchester United e Valencia ai danni della banda di Trapattoni, la Viola più vicina di sempre a varcare le colonne d’Ercole dei quarti di finale. Oppure l’atroce epilogo di Galatasaray-Milan 1999, quando il piccolo Diavolo di Zaccheroni ruzzolò in cinque minuti dal secondo al quarto posto del girone, senza nemmeno il premio di consolazione di retrocedere in Coppa UEFA. Il souvenir peggiore di una fase a gironi spetterà certamente al Napoli, unica squadra della storia della Champions a essere eliminata con 12 punti e quattro partite vinte su sei – avvenne nel 2013, quando Arsenal e Borussia Dortmund la spuntarono per basse questioni di classifica avulsa. E questa sarebbe solamente la prima fase, quella che i vecchi-nuovi padroni del vapore si ostinano a definire noiosa.

Proprio Napoli s’è incaricata nell’ultimo decennio di dare una dignità anche coreografica al celebre inno di cui sopra, mutuato da Händel ma in realtà composto dal britannico Tony Britten. Spesso ignorato, a volte addirittura fischiato per ragioni politiche come fanno a Barcellona, è stato il San Paolo (poi “Maradona”) a renderlo cult con l’urlo a squarciagola “The Chaaaaampions” che ha ridestato i sismografi e i sopraccigli di tutta Europa. Abitudine poi presa anche a San Siro negli ultimi anni, da quando le due milanesi sono rientrate a pieno regime nel circolino buono dopo anni di vacche magrissime in cui erano state sfrattate addirittura dall’Atalanta. Il conformismo calcistico ha smussato differenze etno-antropologiche incolmabili, ha messo nella stessa ciotola ginevrina Siviglia e Trondheim, anche se ancora sopravvivono sacche di orgogliosa resistenza tipo Dortmund, dove gli steward parlano un inglese stentato e i supporter locali organizzano contro l’UEFA contestazioni puntuali e ben informate che farebbero impallidire i bambinoni che popolano le nostre curve. Le differenze permangono soprattutto a Est, dove il livello medio delle formazioni locali è in picchiata e non restano che coreografie roboanti e spericolate, da Varsavia a Belgrado, folklore à la Kusturica che ci teniamo come un buon contorno alle portate principali.

La Champions ha anticipato e incoraggiato l’Europa anche nel doveroso viaggio verso i diritti, l’inclusività e il politicamente corretto, con fisiologici eccessi di zelo come quelli di PSG-Basaksehir del 2020, quando l’attaccante camerunese Webo pretese e ottenne la sospensione della partita perché un assistente arbitrale rumeno gli si era incautamente rivolto con la parola “negru” (fu scagionato dall’UEFA qualche mese dopo). I calciatori e gli allenatori non hanno voltato la testa dall’altra parte, in maniera molto più convinta di tanti governi, su temi come il razzismo o la guerra che costringe da anni lo Shakhtar all’esilio. E ha dato spazio a tutte le istanze, perché il calcio è di tutti e un minimo distinguo può condurre a ricadute economiche sgradevoli (non com’è successo in NBA, dove per esempio bisogna fare molta attenzione a esprimere opinioni sulla Cina). L’armonia vacillò, com’è ovvio che fosse, soltanto per colpa del COVID: proprio una partita di Champions League – la famigerata Atalanta-Valencia del 19 febbraio 2020 – era stata ritenuta uno dei più micidiali veicoli di diffusione del virus, e l’UEFA si avvitò per mesi nel dedalo di burocrazia e legislazioni contraddittorie in giro per il continente (l’Europa unita, che utopia), alla fine lasciando che le squadre inglesi e tedesche potessero esibirsi lontano da casa, in Portogallo o nella più spericolata Budapest, che nel 2021 ospitò addirittura l’andata e il ritorno dell’ottavo di finale Lipsia-Liverpool.

La Champions League ci illude da trent’anni che sia tutto a posto, che l’Europa sia davvero quella culla del diritto e della ragione ventilata per secoli, mentre fuori mugghiava e sta mugghiando ogni tipo di brutto vento. Tutti quegli spot sul calcio come rito collettivo, da accompagnare con il delivery del mercoledì sera, hanno una loro ragion d’essere. Una birra gelata, un panino con la salamella, una tapa di pulpo alla gallega come antidoto al dolore. Così continuerà a essere con la Super-Champions a 36 squadre, che probabilmente – dopo un minimo assestamento – riuscirà a non sparpagliare l’emozione e la condivisione del più grande spettacolo d’Europa. In attesa che il progresso esiga il suo tributo di sangue e il grande show del mid-week si allarghi anche ai nostri vicini rumorosi, eticamente non all’altezza di questo consesso – ma i nostri amati presidenti ne hanno così tanto bisogno: ovvero la Superlega, le partecipazioni straordinarie via wild-card di squadre arabe o statunitensi, zone del mondo che non hanno idea, semplicemente non hanno idea di come funziona una cold rainy night di novembre a Bruges o a Glasgow.

E già, cosa accadrebbe in caso di tilt, se tutto il mondo fuori dovesse entrare in rotta di collisione, come un brutto asteroide, con la nostra comfort zone di euro-calciofili? Una cosa simile si sarebbe potuta verificare nel 2013, quando nei playoff alle soglie della fase a gironi uno dei capisaldi dell’europeismo calcistico, il Celtic Glasgow, s’era trovato contro i campioni kazaki dello Shakhter Karagandy. Tra le curiose usanze di costoro, del tutto sconosciuti ai medi appassionati di calcio, anche l’abitudine del sacrificio di una pecora sul terreno di gioco il giorno prima di ogni partita, come quella d’andata contro il Celtic che in effetti avevano vinto 2-0. Come avrebbe reagito, la vecchia e razionale Europa, di fronte all’intrusione di questi alieni che partivano da un punto di partenza così ostile ai nostri valori? Si sarebbe raggiunto l’abisso, sarebbe giunta la notte della ragione, the silence of the lambs, lo spettacolo macabro e irricevibile di agnellini sacrificati a centrocampo al Bernabeu o all’Allianz Arena? Non si è mai saputo: a Glasgow il Celtic ribaltò la sconfitta dell’andata, vinse 3-0, e dello Shakhter Karagandy non se ne seppe più nulla, mai più.

 

Tratto da Undici #55