Se chiedessero a noi di scrivere una serie tv sul calcio nel 2045, non ci lasceremmo sfuggire l’opportunità di immaginare un mondo in cui le partite durano trenta minuti (come il recupero di Udinese-Roma) ma con la possibilità di arrestare il gioco una o due volte per dar vita allo show nello show: le sostituzioni decise per volontà popolare. Con tanto di presentatore che gestisce il pathos. Ogni spettatore si collega all’app e vota. La puntata della serie tv potrebbe includere la polemica sulla possibilità di estendere il voto ai tifosi che non sono allo stadio. Il pericolo non va sottovalutato: se dovesse finire come a Sanremo in epoca Geolier, rischieremmo ogni partita ricorsi al Tar e interventi delle svariate associazioni di consumatori.
Ma torniamo al focus dell’articolo e abbandoniamo il fantascenario. Lo spunto ce lo offre la realtà dei nostri giorni. O quantomeno le cronache. Che hanno raccontato dell’improvviso dietrofront del Milan per Lopetegui. Sembrava l’allenatore designato per il post Pioli. Poi però – almeno questa è la narrazione – c’è stata l’insurrezione social che ha portato anche all’hashtag #Nopetegui. Da qui il passo indietro del club. Meglio di no. Meglio non cominciare il nuovo corso in un clima ostile. Che il racconto sia fedele o meno alla realtà (e in quali percentuali lo sia), ci interessa relativamente. Ci appassiona di più il tema di fondo. Qual è il ruolo dei tifosi? Quanto incidono? Soprattutto in una squadra che si identifica con un luogo, con una città. Vanno trattati esclusivamente come clienti, oseremmo dire come utilizzatori finali, oppure vanno considerati come se fossero piccoli azionisti?
Il confine è sottile. Cominciamo col dire che non è la prima volta che i tifosi insorgono e bloccano operazioni di mercato. Accadeva anche quando non c’erano i social e hashtag era un termine sconosciuto. Ad esempio ai tempi della Lazio di Cragnotti. Correva l’anno 1995 e a fine stagione venne annunciato il passaggio di Beppe Signori al Parma. Successe un finimondo. I tifosi scesero in strada, minacciarono la rivolta. Quell’11 giugno fu una giornata convulsa che si concluse col passo indietro di Tanzi e la presa di posizione di Cragnotti che dichiarò di aver dato mandato per la vendita del pacchetto azionario. All’epoca non si protestava per gli allenatori. Sempre per i calciatori. Anche se per motivi decisamente diversi, una situazione del genere accadde anche a Udine. L’israeliano Rosenthal venne accolto da cordialissime scritte come ad esempio “Rosenthal vai nel forno”, oltre a svastiche varie. E finì che l’affare sfumò.
Di esempi ce ne sarebbero ancora. Il senso è chiaro. I tifosi facevano sentire la loro voce molto prima che Beppe Grillo si buttasse in politica e con Casaleggio fondasse il Movimento 5 stelle. Dieci anni fa, nell’estate in cui Antonio Conte abbandonò la Juventus nel bel mezzo dell’estate, Andrea Agnelli affidò la panchina bianconera a Massimiliano Allegri. All’arrivo a Vinovo la sua automobile venne presa a calci e a sputi. Se fosse stato così incosciente da uscire, forse sarebbe stato linciato. Questa fu l’accoglienza che Acciughina ebbe prima di vincere cinque campionati consecutivi e disputare due finali di Champions. Un clima molto simile si respirava a Napoli nell’estate 2022. De Laurentiis aveva accompagnato alla porta Insigne, Mertens, Koulibaly, Fabian Ruiz e portato a bordo sconosciuti che si chiamavano Kim e Kvaratskhelia. Con in panchina un signore – Luciano Spalletti – che un anno prima era arrivato a Napoli alla Stazione Tav di Afragola nel deserto. Nemmeno un tifoso ad accoglierlo. Il seguito neanche ve lo raccontiamo. Potremmo continuare ricordando che a metà gennaio 2024 un sondaggio tra i romanisti con la domanda “vorreste l’esonero di Mourinho?” sarebbe finito con il No tra l’80 e il 90%. Ed evitiamo di ricordare come sarebbe finito un analogo sondaggio tra i milanisti nel lontanissimo 1987: “vorreste Arrigo Sacchi alla guida del Milan?”
Proviamo a proseguire senza rendere omaggio a Kolarov l’uomo che un giorno squarciò il velo di ipocrisia e disse che i tifosi di calcio non capiscono granché. Andando oltre Kolarov, il punto è che il calcio è sì business, è sì management ma è impossibile non prendere atto si tratta di una forma aziendale particolare. Tant’è vero che di manager puri ce ne sono pochissimi. In Italia probabilmente nessuno, fatta eccezione per Marotta che comunque è un manager che si è fatto da sé partendo dai campi di calcio. Non arriva dalla Bocconi. Per non parlare del profilo dirigenziale a livello nazionale. Molto raramente il calcio italiano si è affidato a manager strutturati. Ricordiamo Dal Pino che ha resistito pochissimo alla guida della Lega Serie A. E prima di lui Guido Rossi che fu nominato commissario straordinario nel 2006 in piena Calciopoli e rimase in carica quattro mesi. Le singolarità proseguono col ruolo dei tifosi, ruolo che ovviamente non esiste in nessun altro comparto industriale. I tifosi non sono solo clienti. Altrimenti, per fare un esempio, non si capirebbe come mai sempre più spesso assistiamo a quelle scene mortificanti di calciatori e allenatori che come scolaretti vanno a beccarsi la ramanzina sotto la curva dopo qualche sconfitta o qualche prestazione ritenuta indecente.
Probabilmente una definizione che potrebbe calzare per questa strana creatura che definiamo tifoso-ambiente è quella che Sorrentino cucì addosso a Jep Gambardella: «Io non volevo solo partecipare alla feste, volevo avere il potere di farle fallire». Ecco il punto. Spesso, diciamo sempre, quelle dei tifosi sono posizioni umorali che trovano le loro radici in un universo che non appartiene alla galassia dei fatturati, delle plusvalenze, degli ammortamenti, dei bilanci. Attiene alla galassia delle emozioni e dei bassi istinti calcistici. “Non vogliamo X perché è juventino”. “Non vogliamo Y perché laziale”. Espongono striscioni ispirati a valori del tutto ignorati a Wall Street come ad esempio l’amore per la maglia o il rispetto per la tradizione.
È tutto assurdo. E vale sia per i tifosi organizzati sia per quelli disorganizzati che si agitano sui social. Ma esistono. E influenzano. Rimanendo all’esempio Milan, suona quantomeno paradossale che un club accusato dai tradizionalisti di fare il mercato col metodo moneyball si ritrovi poi a cambiare strategia di fronte alla contrarietà dei tifosi. In teoria è semplice affermare che un management, quando è convinto di sé, non debba lasciarsi condizionare. E spesso le scelte impopolari sono quelle che portano i frutti migliori. Ma la realtà va anche guardata per quella che è. I tifosi esistono. L’ambiente esiste. Non si può far finta che non ci siano. Talvolta sono un buon alibi da esibire quando non si è pienamente convinti delle proprie decisioni.