Se si pensa al Milan e al 2007, l’ultimo Milan campione d’Europa, il primo nome che viene in mente non può essere che quello di Ricardo Kaká. Certo, nella squadra che batté il Liverpool in finale, per altro due anni dopo la terribile sconfitta di Istanbul sempre contro i Reds, c’erano Maldini, Pirlo, Nesta, Pippo Inzaghi, Seedorf, Gattuso. Ma Ricardo Kaká, nell’anno di grazia 2007, era semplicemente il miglior giocatore del mondo. E per distacco. Non a caso, viene da dire, è toccato proprio a Kaká raccontare, in un lunghissimo articolo su The Players’ Tribune, l’apoteosi dei suoi (primi) otto anni a Milano, ovvero la finale di Atene, la grande rivincita contro il Liverpool di Benítez. Come succede sempre nei pezzi scritti dai calciatori per TPT, la cronaca dei momenti salienti della partita è una sponda per parlare degli episodi più importanti della sua vita calcistica.
Si comincia con i pensieri che affollano la testa di Kaká, prima del calcio d’inizio: «Devo fare la mia parte al meglio delle mie possibilità, sbagliare il meno possibile. Nelle partite decisive i dettagli scrivono la conclusione della storia, ma il timore di sbagliare non può bloccare la mia creatività. Le prendo di petto. Mi son sempre piaciute le grandi partite». In pochi istanti, nella mente del miglior giocatore della Champions (e del pianeta) si accavallano mille pensieri, a metà tra euforia e timore, tra voglia di rivalsa e un inquietante senso di deja-vù: «Il mio desiderio di essere campione mi riporterà ai giorni di sole dove spendevo tutto l’intervallo al collegio a dar calci ad un pallone di fortuna, e allora mi calmerò. Tutto sarà più nitido, i sentimenti di paura e entusiasmo meno mischiati, il rombo dello stadio si farà distante, la voce dell’amore per il calcio calcio si rifletterà nei miei movimenti e giocherò felice e libero come quando ero bambino».
Il racconto prosegue, contemporaneamente con un’immaginaria cronaca della partita, sfruttando dei flashback dentro ai flashback: dall’infanzia a San Paolo, dove scopre l’amore per il pallone, alla storica semifinale contro il Manchester United («Dove giocammo quella che la stampa italiana ancora oggi chiama “La Partita Perfetta”»); dai dubbi adolescenziali, quelli sull’abbandonare o meno il calcio, al trionfo della sua prima stagione in maglia rossonera; dal Mondiale del 2002, dove Ronaldo lo prese sotto la sua ala («Un fenomeno, non solo in campo»), alla paralisi sfiorata del 2000 dopo la frattura della sesta vertebra cervicale durante una gita in un parco acquatico. Il tutto con un’unica missione in testa: riprendersi quello che il Milan aveva gettato via due anni prima, nella finale di Champions di Istanbul — quando la squadra di Ancelotti, in vantaggio di tre reti all’intervallo, riuscì a farsi rimontare in pochi minuti dal Liverpool e poi a perdere la partita ai calci di rigore.
E mentre i minuti della partita scorrono, così come gli episodi più importanti della sua vita, Kakà non può fare a meno di pensare che tutto quello che ha vissuto, sofferto, costruito, non sia nient’altro che un grande piano divino, lui che è sempre stato un fervente cristiano. In chiusura, mentre si trova nel cerchio di centrocampo dello stadio Olimpico di Atene, con le braccia rivolte al cielo e una canottiera su cui ha fatto scrivere “I BELONG TO JESUS”, Ricardo Kakà si interroga su cosa significhi giocare e vincere una finale di Champions League, quella finale di Champions League: «Dirò che giocare una finale di Champions è un ruggito. È la vita che ruggisce. È un suono che modella il nostro carattere, nella vittoria come nella sconfitta. E appena il pallone rotola, tutto quello che hai immaginato su questo momento non esiste più: il ruggito diventa una chiamata, forte e chiara, per andare a prendere il tuo destino». Il suo destino, dopo la vittoria di Atene, sarà la vittoria del Pallone d’Oro.