È l’estate del 1998, Christian Vieri è il prototipo di attaccante ideale. Possente, dominatore, implacabile. Ha appena vinto la classifica capocannonieri in Liga, con l’Atlético Madrid, la sua media gol è perfetta: uno a partita, 24 in 24. Ai Mondiali in Francia segna cinque delle otto reti della Nazionale italiana, e finisce a un solo gol dal capocannoniere Suker – se solo i rigori contro la Francia avessero avuto un altro destino, forse parleremmo di altro. Sergio Cragnotti, numero uno della Lazio, è deciso: vuole portarlo in biancoceleste. Cragnotti aveva appena quotato il club in Borsa, il primo in Italia, e vedeva nel calcio – nel calcio italiano degli anni Novanta, con il suo affollarsi di campioni, un’attenzione mediatica paragonabile a Hollywood, la luce che tagliava meravigliosamente quegli stadi che avevano ancora l’aspetto di astronavi – un business sconfinato, vincente, imperituro.
Sven Goran Eriksson ha ricordato: «Avevo un ottimo presidente. Se volevo un giocatore, avrebbe cercato di prendermelo. Un giorno gli telefono e gli dico: “Vieri”». L’Atlético voleva 50 miliardi di lire. «Sono un sacco di soldi», disse Cragnotti. Ma Eriksson non voleva trattare sulla base di contropartite tecniche. «E allora che facciamo?», chiese Cragnotti. «Lo compriamo», ricorda Eriksson, e poi: «Non provò nemmeno a pagare 49 miliardi. Ne sborsò 50, semplicemente». Quella Lazio rimase a lungo in testa al campionato, ma alla penultima giornata, a Firenze, i piani andarono in fumo: proprio Vieri, che aveva saltato gran parte della stagione per infortunio, pareggiò l’1-0 di Batistuta, e più tardi si ritrovò la palla del 2-1. Colpì il pallone di testa da pochi metri, con grande potenza. Ma fu solo traversa. Il Milan, nel frattempo, vinse facilmente conto l’Empoli, sorpassando in classifica i biancocelesti, e sette giorni dopo festeggiò lo scudetto sul campo del Perugia. La Lazio aveva fallito la grande chance, ma in realtà si stava preparando a scrivere la miglior sceneggiatura possibile. Perugia, un anno dopo, avrebbe avuto un altro significato nella storia biancoceleste.
Christian Vieri andò via dopo un anno: alle insistenze dell’Inter, Cragnotti sparò altissimo, 90 miliardi. E Moratti glieli accordò. Non si era mai vista una cifra simile nel calciomercato. La Lazio reinvestì quei soldi per portare a Roma Verón, da tempo pallino di Eriksson, e Simeone, proprio dall’Inter – di lui Ronaldo non ne poteva più, dopo le numerose liti per via dell’ambizione da “capitano” dell’argentino. Ogni grande sceneggiatura non funziona se non è costruita attorno a personaggi affascinanti. E quella Lazio ne aveva. I due argentini in mezzo al campo assicuravano qualità e tenacia. In difesa Eriksson, al fianco di Nesta, indiscutibilmente uno dei centrali più forti nella storia del calcio italiano, piazzò Sinisa Mihajlovic. Lo aveva già avuto ai tempi della Samp, dove lo aveva convinto a trasformarsi in difensore. Convinto, in realtà, è un parolone. «Mi disse no, è testardo come un mulo. Riuscii a convincerlo a giocare da terzino sinistro, ma non era abbastanza veloce. Lo immaginai come un difensore centrale, ma lui disse “Assolutamente no, terzino è già troppo”. Ma poi alcuni giocatori si infortunarono, e allora non ebbe scelta». In quella posizione, Mihajlovic fece vedere abilità da difensore moderno, capace di impostare l’azione, vedere il gioco da dietro, proporsi da fonte di gioco alternativa.
Completavano la difesa Negro e Pancaro (o Favalli, al posto di uno dei due), che condividevano la fascia con Sergio Conceiçao e Pavel Nedved: due giocatori di grande tecnica, ma anche “faticatori”. «Nedved era estremamente professionale», ricorda Eriksson, «e sempre in forma. Poteva correre su e giù per tutto il giorno». In attacco Salas – che Eriksson scelse quando capì che arrivare a Batistuta era impossibile, e fu l’unica volta che la parola “impossibile” echeggiò negli uffici di Cragnotti – e Roberto Mancini. Mancini aveva già 35 anni, una carriera importante con la maglia della Sampdoria, e una mentalità già da post-calciatore. A fine campionato annunciò il ritiro dal calcio giocato, e divenne il secondo di Eriksson nella stagione 2000/01 (quello stesso anno, in realtà, tornò in campo per una fugace, e dimenticabile, esperienza al Leicester. Ma rinunciò prontamente, e nel giro di pochi mesi era già tecnico della Fiorentina).
Mancini non era soltanto un giocatore con qualità tecniche sopra la media – con la maglia della Lazio, nel gennaio 1999, segnò al Parma con un colpo di tacco che ancora oggi appare sbalorditivo – ma una guida di peso all’interno del gruppo. Avete visto quanto Michael Jordan spingesse oltre le possibilità i propri compagni in The Last Dance? Ecco, Mancini incarnava lo stesso spirito. «Se non facevi esattamente quello che dovevi in campo», ricorda Eriksson, «andava fuori di testa. Ma era davvero un vincente, e anche molto generoso. Era un punto di riferimento all’interno dello spogliatoio. Voleva che la squadra vincesse, e dava tutto perché accadesse. Sono sicuro che, una volta tornato a casa dall’allenamento, continuava a pensare al suo lavoro».
Eriksson ha spiegato l’impostazione tattica di quella Lazio: «Mancini era quello che faceva giocare tutta la squadra. Poteva spostarsi, andare dappertutto, poteva venire anche a centrocampo a giocare il pallone. Quando lo faceva, sapevi che se riusciva a girarsi con la palla, la palla sarebbe arrivata. Diceva ai compagni: se vedete che mi giro con il pallone, testa bassa e correte. Correte senza pensare, la palla arriverà. Ed è successo molte volte. Ma la cosa particolare è che non c’era solo Mancini capace di fare questo tipo di passaggi. Se davi la palla a Mihajlovic lui diceva a tutti: correte. Perché con il sinistro sarebbe riuscito a passarla facilmente. Era una squadra che aveva un buon gioco, e anche un ottimo possesso palla. Ma in contropiede eravamo straordinari. Soprattutto grazie a loro, perché gli altri giocatori sapevano che quando avevano il pallone e c’era spazio, bisognava scattare e la palla sarebbe arrivata. Questo succedeva spesso. Nedved, per esempio, era molto abile a scattare dietro gli avversari».
Mancini, Simeone, Conceiçao, Mihajlovic, e poi Simone Inzaghi. Oggi sono tutti allenatori, e di discreto successo. Quella squadra era piena zeppa di caratteri carismatici, potenzialmente in contrapposizione tra di loro. Ma guerre interne non ce ne furono mai: «I miei giocatori erano tutti dei vincenti. Volevano vincere, odiavano perdere», spiega Eriksson. «Ogni tanto poteva esserci qualche scontro, ma generalmente si rispettavano a vicenda. Sapevano che se avessero svolto correttamente il loro lavoro, saremmo stati una grande squadra. Sentivano che potevano vincere tutto».
Non solo: c’erano i titolari, certo, ma quella Lazio – ed è forse l’ultima squadra ad aver vinto il campionato italiano con questa caratteristica – era molto di più degli undici che scendevano in campo dall’inizio. I titolari, anche solo potenziali, erano molti di più, erano diciotto, venti. In quella Lazio c’erano Stankovic, Almeyda, Boksic, Inzaghi, Ravanelli, Sensini, Couto, Lombardo. Molti di loro avevano una grande esperienza internazionale, erano conosciuti nell’ambiente, spesso avevano già vinto trofei importanti. Si fa fatica a etichettarli come panchinari, e lo sarebbe stato in qualsiasi squadra. Eppure, non si facevano problemi ad andare in panchina: spesso risolvevano le situazioni a partita in corso, o riparavano a qualche mancanza, più che ergersi a protagonisti assoluti. Il potenziale era realmente sconfinato.
Quella squadra, senza la tenacia di ciascuno di loro, non avrebbe mai vinto lo scudetto. A metà marzo, dopo una sconfitta a Verona, la Juventus era avanti in classifica di ben nove punti. L’ottimismo di Eriksson sembrava fuori luogo. Persino Cragnotti non credeva più alla possibilità di vincere il campionato. Una settimana dopo il tonfo del Bentegodi, però, la Lazio vinse il derby contro la Roma, mentre la Juve perse contro il Milan. Proprio un turno prima dello scontro diretto, in programma al Delle Alpi. Nel volgere di pochi giorni, cambiò tutto. La Lazio vinse 1-0 a Torino e, anche se era ancora seconda in classifica, aveva tutto il morale dalla propria parte. Il “tre” mostrato con le dita da Simeone a fine partita, autore del gol decisivo, suonava già come un gesto di vittoria.
Ci sarebbero stati altri modi, certamente più tranquilli, per vincere lo scudetto, il secondo dopo quello del 1974. Ma il racconto non sarebbe stato così riuscito se quella Lazio avesse dominato il campionato dalla prima giornata. Nell’anno del centenario del club, con Roma al centro del mondo per il Giubileo, una squadra fortissima e un presidente che, se avesse voluto, avrebbe comprato persino la Luna, un epilogo da film era l’unico possibile – un epilogo mai visto prima, né dopo. I giocatori che, dopo aver battuto facilmente la Reggina all’Olimpico, aspettano notizie da Perugia, dove la partita sembra non poter, o non voler, cominciare mai. Da Mancini a Salas a Simeone, tutti che restano in campo, qualcuno in mutande, senza nemmeno essersi fatti la doccia, ché tanta è l’eccitazione e l’apprensione di quei momenti. Poi si gioca a Perugia, Calori segna il gol dell’1-0, l’Olimpico ribolle, lo scudetto è della Lazio, ed è una delle sceneggiature più incredibili che la Serie A abbia mai saputo regalarci.