Non c’è niente di nuovo nelle inchieste sugli ultras, e il problema è proprio questo

Da troppi anni, ormai, il calcio italiano ha un grande problema col tifo organizzato.

Un tempo il giornalismo veniva spiegato così: «Che cos’è una notizia? Una notizia è l’uomo che morde il cane». È il metro più affidabile. E seguendo questo canone, l’inchiesta della Procura della Repubblica di Milano sugli ultras di Milan e Inter, e sulle loro molteplici attività criminali, non è una notizia. È il cane che morde l’uomo. Certo, ci si preoccupa per il malcapitato, ci si attarda il tempo necessario a capire quanto la faccenda sia grave, ma poi si passa oltre. Alzi la mano chi conosce una persona, non tante, che leggendo o ascoltando degli arresti e dei capi d’accusa si sia sorpreso e abbia esclamato: «Non me lo sarei mai aspettato».

Ci viene in soccorso Michele Serra che su Repubblica ha fotografato la situazione con la nitidezza di una Leica: «Sono almeno vent’anni (approssimati per difetto) che le curve ultras governano gli stadi secondo il loro profitto e il loro comodo. Taglieggiano le società di calcio (prime vittime e prime colpevoli della situazione). Sono parte organica della criminalità cittadina, si muovono come organizzazioni paramilitari, ragionano come mafie e come mafie regolano i conti con l’omicidio, brutalizzano gli altri tifosi, decidono di interrompere le partite, intervengono nelle campagne acquisti, blandiscono o minacciano allenatori, dirigenti, calciatori».

La realtà è più o meno questa. E torna in maniera prepotente a intervalli regolari. Con la dovuta specifica: quando non se ne parla, non è perché il fenomeno sia rientrato, semplicemente è un momento di risacca mediatica e/o giudiziaria. Sempre più spesso le cronache italiane raccontano di intrecci tra capi delle tifoserie e criminalità organizzata con l’obiettivo di accaparrarsi una fetta del business calcio. Spesso, non sempre, l’unione ultras-criminalità avviene assoggettando i club. A nostro avviso, anche perché resiste una certa idea culturale (difesa da tanti esponenti dell’intellighenzia) di stadio come zona franca. A vari livelli. Non solo in Italia, se consideriamo quel che è recentemente accaduto al derby di Madrid.

L’inchiesta della Procura della Repubblica di Milano è più o meno il remake di quella dei colleghi torinesi sui rapporti tra ultras ‘ndrangheta e Juventus. Qualcuno potrebbe obiettare: in realtà a Milano, fronte interista, ci sono stati due morti ammazzati. Vero. Ma va ricordato che anche a Torino ci fu un suicidio molto sospetto. La trama non c’è neanche bisogno di raccontarla. La trama è fin troppo prevedibile. Pressioni degli ultras su club, dirigenti, allenatori, calciatori, per posizioni di potere che si traducono in vantaggi economici, business: bagarinaggio, in alcuni casi gestione dei parcheggi, in altre del merchandising, o altro. Tutto quanto possa produrre denaro facile e illegale. E non solo. Ogni volta emerge la differenza tra il tifoso comune (che compra il biglietto, che aspetta magari un autografo eccetera) e il tifoso businessman (lo chiamiamo così, è più affascinante) che invece può convocare Skriniar al bar, può dire a Inzaghi come comportarsi con la squadra. Diciamo la verità, è impossibile non essere invidiosi degli ultras.

L’inchiesta di Milano non mostra nulla che sorprenda chi è stato allo stadio almeno due volte nella vita. Nemmeno nella prima fase che in genere è mediaticamente più spettacolare e giudiziariamente meno equilibrata. C’è un primo processo (per certi versi quello più importante) che è il processo mediatico. In cui la difesa non esiste e l’accusa spadroneggia: il meccanismo mediatico-spettacolare tende a trasformare ogni capo d’accusa in sentenza. Sono i momenti in cui è possibile leggere di Simone Inzaghi che parla al telefono con i capi ultras e promette di intercedere col club per far avere loro più biglietti per la finale di Champions (per rivenderli eh, sia chiaro). Ecco, in quei momenti sembra che stia commettendo un reato. Poi – a riflettori spenti – si vedrà se e quale tipo di condanna subirà, sia in ambito penale sia dal punto di vista della giustizia sportiva. Soprattutto in ambito sportivo si tratta quasi sempre di decisioni politiche dettate dal vento mediatico che soffia ai tempi delle sentenze.

Persino in questa fase dell’inchiesta (la prima), nessuno si è sorpreso. Non c’è nulla di realmente nuovo. Il che – sia chiaro – non significa che non sia grave. Ma lo sapevamo. Tutti lo sanno. Persino in Procura, visto che l’inchiesta era lì da cinque anni. E a tutto ci siamo assuefatti. In fin dei conti non sorprende nemmeno il patto tra ultras di Inter e Milan per la vendita dei biglietti della finale Champions 2023. Magari strappa un sorriso. È soltanto la certificazione che i presunti capi delle tifoserie in realtà tifano per se stessi. Per il proprio portafogli. Per chi non lo sapesse, sempre secondo l’accusa, il patto fu siglato ai tempi della semifinale tra Inter e Milan. Per non scontentare nessuno, si misero d’accordo: avrebbero diviso i proventi del bagarinaggio dei biglietti della finale, in modo che i loro affari non sarebbero stati intaccati dal risultato sportivo. Avrebbero vinto comunque, anche in caso di eliminazione della squadra diciamo di riferimento. Una decisione persino geniale, per certi versi. Certamente oculata dal punto di vista contabile. Non a caso abbiamo scritto di businessmen.

I club hanno responsabilità? Certamente sì. Anche se è complicata la vita di un Paese in cui, per essere ordinari testimoni di legalità, bisogna indossare i panni dell’eroe. I club dovrebbero denunciare. È vero. È anche vero che è abbastanza evidente quel che accade in tanti stadi italiani. Da Milano in giù. Persino in quello della Lazio, dove il presidente Claudio Lotito è costretto da sempre (da vent’anni, ossia da quando ha acquistato la Lazio) a vivere sotto scorta per non essere mai voluto scendere a patti con quel mondo. Neanche ci rendiamo conto del livello di barbarie che abbiamo toccato. Anche De Laurentiis ci terrebbe a essere annoverato in questa categoria, non a caso è da sempre avversato dalla tifoseria napoletana. I titoli li avrebbe, ma grava su di lui quella improvvida fotografia in cui si fece immortalare con gli ultras per suggellare l’improvvisa pax (sempre del 2023). Era l’anno dello scudetto. Nonostante la vittoria già in tasca, la tifoseria organizzata era sul piede di guerra. Il clima in città era irrespirabile (il Napoli aveva praticamente vinto, è un dettaglio importante, va ripetuto a conferma che i risultati sportivi non contano nulla). Il sindaco e le istituzioni temevano per la festa, erano atterriti all’idea che potesse accadere qualcosa di brutto. Di molto brutto. I beninformati raccontano che a De Laurentiis quell’incontro fu imposto. Per motivi di sicurezza pubblica. La ragion di Stato. Va’ a sapere.

A San Siro, la Curva Nord è il settore dello stdio dove prendono posto i gruppi organizzati dell’Inter; in Curva Sud, invece, ci sono i milanisti (Marco Luzzani/Getty Images)

Non avremmo qui lo spazio per riepilogare gli atti criminali legati alle tifoserie organizzate. Ormai sono entrati nella nostra quotidianità e neanche ci facciamo più caso. Solo pochi giorni fa, a Genova, ultras di Genoa e Sampdoria hanno dato vita a una guerriglia che non si vedeva dai tempi del G8 (anno 2001). Ed è stato particolarmente simbolico leggere che una parte degli scontri sia avvenuta in piazza Alimonda, proprio dove finì la vita di Carlo Giuliani.

Se qualcuno volesse divertirsi, suggeriamo la lettura settimanale delle indicazioni dell’Osservatorio sulle manifestazioni non sportive. L’Osservatorio riceve segnalazioni dalle questure di tutta Italia sulle partite che ogni week-end sono ritenute più a rischio. In tanti sono portati a pensare che esista soltanto la Serie A. Non sanno quanto possano impattare sulle forze dell’ordine match come Benevento-Foggia, Cerignola-Potenza, Altamura-Cavese, Bisceglie-Canosa, Castrumfvara-Akragas, Ebolitana-Battipagliese. È come se ogni fine settimana andasse in scena un gioco di ruolo in tutta la Penisola.

Esistono anche quelli che si autoproclamano romantici. Non sono pochi coloro i quali subiscono la fascinazione del mondo ultras, o comunque sostengono che siano gli ultimi rappresentanti genuini di un calcio sempre più mercificato. Probabilmente per i cantori del movimento ultras è ancora più dura da digerire la periodica lettura delle cronache e degli atti d’inchiesta da cui si evince chiaramente che per tanti rappresentanti di quel mondo il calcio è esclusivamente una forma di business. È un po’ quel che accadeva prima della caduta del Muro di Berlino. Chi a sinistra faceva notare la vita senza libertà dei cittadini dei paesi comunisti, si sentiva rispondere che quello non era il vero comunismo. Mutatis mutandis, questi non saranno il vero movimento ultras. Non lo sono gli indagati di Milano. Non lo erano i due capi tifosi dell’Inter che sono morti ammazzati. Non lo era Fabrizio Piscitelli, al secolo Diabolik, leader incontrastato della Curva Nord laziale, criminale conclamato, ucciso in uno degli omicidi più spettacolari degli anni Duemila in Italia: un colpo di pistola alla nuca mentre era seduto su una panchina al Parco degli Acquedotti, a Roma, in pieno giorno. Vale la pena concludere con l’istruttiva intervista realizzata dal Foglio a Joe Hutton, uno dei leader dei Millwall Bushwackers, il gruppo ultrà del Millwall F.C., uno dei più noti dell’hooliganismo inglese. Che ha dichiarato: «Non si mangia sui colori. Quello che è successo nelle curve di Inter e Milan è uno schifo, un tradimento della fede calcistica». Non avremmo saputo dirlo meglio.