Se vogliamo parlare di un continente dove la tradizione calcistica assomiglia a qualcosa di quasi religioso dobbiamo, senza ombra di dubbio, fermarci in America Latina, una terra che gli europei hanno colonizzato, in cui hanno esportato un sacco di cose, ma poche hanno messo radici profonde quanto il calcio. La passione, la garra e l’amore per la propria nazionale sono valori che, in certi casi, si sono rivelati un vero e proprio collante tra la popolazione, soprattutto quando questa è stata costretta a fare i conti con difficoltà economiche e instabilità politiche. C’è un archetipo particolarmente caro alla cultura latinoamericana ed è quello dell’Hombre vertical: l’eroe che non si piega, resta dritto in piedi, difende la sua dignità e così facendo protegge quella del suo intero Paese.
Un calciatore che rientra in questa categoria tanto amata, soprattutto nella fiera Argentina, è indubbiamente César Menotti: un campione, ma a suo modo un filosofo del calcio che, per amore dello sport, ha affrontato momenti molto complessi senza mai nascondersi dietro la parola “paura” anche quando sarebbe stato comprensibile farlo. Nato a Rosario nel 1938, Menotti è figlio di immigrati italiani provenienti da Ancona e sbarcati in terra argentina nelle grandi ondate migratorie di fine Ottocento. César, fin da piccolo, prova una grande passione per uno sport che riesce ad unire ragazzi di tutte le classi sociali: el fútbol. Come tanti ragazzi argentini nati in quel periodo storico, Menotti vede da vicino un fenomeno politico che cambia radicalmente il futuro del Paese e buona parte del continente sudamericano: il Peronismo.
Tra i milioni di argentini che sostengono il governo di Peròn troviamo anche il padre di César. Fin da piccolo, però, César, El Flaco (lo smilzo) per gli amici, manifesta la sua indole libera e ribelle. Se in casa si ama un leader populista, lui decide di abbracciare gli ideali del marxismo. Insieme alla politica si dedica alla sua più grande passione: il calcio, una realtà che nel suo Paese può dare molte più soddisfazioni. César gioca in attacco e, nonostante il fisico ritenuto da tutti troppo gracile, riesce anche a imporsi ad alti livelli. Più che un bomber vecchio stampo, è un giocatore di manovra a cui piace dialogare con i compagni. Nei ruggenti anni Sessanta, periodo in cui il calcio sudamericano tiene testa a quello europeo, riesce a giocare in alcuni dei più importanti club del paese: Rosario Central, Racing Club e soprattutto Boca Juniors, con cui vince un campionato nel 1965. È un calciatore atipico, perché fin da giovane è uno studioso del calcio e, nella fase finale della sua carriera, sceglie di provare una nuova esperienza a dir poco insolita per un argentino: giocare in Brasile. Si trasferisce nella terra dei rivali storici e gioca nella stessa squadra del O’Rey du Futbol: il Santos di Pelé.
L’Argentina non ha ancora vinto un Mondiale mentre il Brasile ha già conquistato tre Coppe del Mondo. Finita la carriera da giocatore nel 1970, Menotti ha le idee molto chiare: vuole diventare allenatore e sogna di fare la storia dell’Argentina. Nel corso della sua esperienza brasiliana non ha solo vinto un campionato carioca, ma ha imparato delle nuove tattiche di gioco che ora vuole mettere a frutto nella sua carriera da allenatore. Dinamico e a tutto campo, così sarà il calcio di Mister Menotti. Tra il 1971 e il 1974 siede sulla panchina dell’Hurucàn e lo porta a vincere un campionato al primo colpo. Tutti si accorgono di avere a che fare con un predestinato e i primi a notarlo sono, ovviamente, i dirigenti della Federazione argentina. Nel 1974 César El Flaco Menotti diventa il commissario tecnico della Nazionale, realizzando così, da giovane allenatore in fase emergente, il primo sogno della sua carriera.
Siamo in un momento particolare della storia del suo Paese e sono in corso eventi politici che cambieranno la vita del popolo argentino. Dopo quindici anni, avviene, infatti, la tanto attesa svolta democratica: il popolo torna a votare dopo oltre un decennio di dittatura militare. Juan Domingo Peròn, deposto da un colpo di stato nel 1955 e rifugiato prima in Paraguay e poi nella Spagna di Francisco Franco, rientra in patria. Nel 1973, utilizzando come prestanome Hector Campora, vince le elezioni e riprende il potere nonostante l’età e le condizioni di salute. Per gli argentini si tratta di un clamoroso ritorno al passato.
Contemporaneamente ai cambi di guardia politici, anche il calcio argentino si trova davanti a una svolta. La Nazionale è reduce da una non qualificazione ai mondiali del 1970 in Messico e da una pessima esperienza in Germania nei successivi mondiali del 1974. Per portare l’Argentina sul tetto del mondo El Flaco ha un’idea molto chiara: giocare un calcio spettacolare e aggressivo. Per celebrare il ritorno della “democrazia” a Buenos Aires (nasce in questo momento la definizione di “democrazia alla sudamericana”), la Fifa decide di far disputare i campionati del mondo del 1978 proprio in Argentina. Se non manca l’entusiasmo tra la popolazione, la situazione economica è semplicemente disastrosa. Nel 1974 Perón si spegne dopo una lenta malattia e al suo posto viene nominata la terza moglie: Isàbel Martìnez, detta Isabelita. Il Paese è in ginocchio, la povertà aumenta giorno dopo giorno e l’inflazione supera il 150 per cento. Risultato: aumentano i movimenti di protesta e diversi gruppi armati di estrema sinistra si organizzano per portare la rivoluzione anche in Argentina.
Le posizioni politiche di Isabelita Peròn non convincono gli argentini e neanche gli americani, che vogliono a Buenos Aires un governo stabile e duraturo in grado, nel caso anche con la violenza, di stroncare sul nascere possibili rivolte comuniste. Il giorno che cambia la storia del Paese è il 24 marzo 1976: nell’indifferenza della comunità internazionale i militari, sulla scia dell’esempio di Pinochet in Cile, rovesciano il governo e instaurano un regime militare. Ben presto diventerà la più sanguinaria e spietata di tutte le dittature sudamericane. Il capo della giunta militare è il generale Jorge Rafael Videla, fervente cattolico e convinto anticomunista. Pochi giorni dopo la presa del potere, il generale Ibérico Saint Jean, nominato da Videla governatore della provincia di Buenos Aires, annuncia il terrificante progetto del nuovo governo appena insediato: «Prima uccideremo tutti gli oppositori, poi i loro collaboratori, quindi i simpatizzanti. Successivamente faremo fuori tutti gli indifferenti e alla fine colpiremo anche i timidi».