Pep Guardiola non sa perdere

Non gli era mai successo così a lungo, e forse il problema è proprio questo.

La crisi di nervi di Pep Guardiola l’ha spiegata Quentin Tarantino in una scena di Django Unchained. I nostri eroi Django Freeman e King Schultz sono stati mascherati dal diabolico Calvin Candie, il loro piano per salvare Broomhilda von Shaft è andato a farsi benedire, tutti e tre (Django, Schultz e Broomhilda) sono alla mercè del nemico. Monsieur Candie accetta di vendere Broomhilda a Schultz per una cifra spropositata, l’umiliazione dell’avversario è il suo dessert. Invita Schultz nel suo studio per la firma e lo scambio delle carte, le carte vengono firmate e scambiate. Mentre gli ospiti fanno per lasciare finalmente la piantagione, Candie li ferma: non se ne fa nulla senza un congedo formale e un suggello ufficiale, senza la stretta di mano tra lui, il monsieur, e il dottore, Schultz. Quest’ultimo fa obiezione di coscienza, ne nasce un diverbio. «Sapete cosa penso di voi?», chiede Candie a Schultz. «No, non lo so », risponde Schultz. «Penso che siate un pessimo perdente», spiega Candie. «E io penso che siate un infimo vincente», ribatte Schultz. Segue il criticatissimo colpo di scena che dà il là alla carneficina finale e mette la premessa per il trionfo dell’eroe (Django): Schultz spara in petto a Candie, gli trapassa il cuore con un proiettile, un atto di assoluta irrazionalità compiuto da un personaggio che fino a quel momento si era dimostrato ragione incarnata, grillo parlante del West.

Come tutti gli artisti, Tarantino non poteva sapere che questa scena in futuro avrebbe parlato anche di altro e ad altri, ma tant’è: la lezione qui è che non si può mai sapere come si comporterà un vincente nel momento in cui gli eventi, la sorte, il tempo lo costringeranno al ruolo dello sconfitto. La razionalità è un castello di sabbia: basta un calcio a farne macerie. King Schultz nella sua vita l’aveva sempre avuta vinta e si era condotto sempre come un impeccabile vincente, ma è bastata una sola sconfitta per farlo diventare pessimo perdente. Pep Guardiola rischia di seguire lo stesso arco narrativo, con l’aggravante che il calcio, ai suoi protagonisti, non concede la giustizia che il cinema riserva ai suoi: basta dimostrarsi pessimi perdenti una volta e si rischia di essere retroattivamente bollati come infimi vincitori. Certo, pure Guardiola nelle ultime settimane ci sta mettendo del suo. In questo momento perdere contro il Liverpool, ad Anfield, è la cosa più facile e giusta che si possa fare: se non con rassegnazione, l’inevitabile può essere vissuto almeno con discrezione. Guardiola, uomo del destino, si riscopre invece uomo qualunque. Allenatore qualunque, soprattutto. E cosa c’è di più comune, di più banale, per un allenatore oggi che preoccuparsi della stabilità del proprio posto di lavoro? «You’re getting sacked in the morning», gli hanno cantato i tifosi del Liverpool mentre usciva dal campo dopo il triplice fischio. L’uomo del destino qui avrebbe dovuto ricordare il precedente di M., che nel calcio sta non per Mussolini ma per Mourinho: in casi come questo è sempre meglio non curarsi di loro ma guardare e passare, a furia di battibecchi e frecciatine con i tifosi si passa da impeccabili vincenti a infimi vincitori a pessimi perdenti. Ma anche l’uomo del destino è, appunto, un uomo: Guardiola, pezzo di pane, non ha resistito, prima di imboccare il tunnel che porta allo spogliatoio si è girato verso la Kop e con le dita ha composto il numero sei, tante quante sono le Premier League vinte dal City sotto la sua amministrazione.

Che cosa desidera l’uomo che ha tutto? Continuare ad avere tutto. Nel calcio questo significasoprattutto avere certezze. Per le squadre come il Manchester City e per gli allenatori come Guardiola, la certezza più importante è quella che garantisce che la stagione si decide in primavera, in una manciata di partite tra marzo e maggio. Tutto quello che succede prima è preambolo e premessa, tanto necessario quanto scontato: una squadra come il Manchester City e un allenatore come Guardiola non sono fatti per preoccuparsi a novembre dello stato delle cose. Che è la ragione per la quale la situazione del City e di Pep è così intrigante e straniante: quand’è stata l’ultima volta che una squadra di questo livello ha perso quattro partite consecutivamente in campionato e non è riuscita a vincerne nemmeno una di sette in tutte le competizioni? In tutta la sua carriera, a Guardiola una cosa del genere non è mai successa. Lo sappiamo ma soprattutto lo vediamo, lo sentiamo: quasi gli manca il vocabolario necessario a elaborare, quindi a superare, la situazione.

Nelle diverse dichiarazioni e interviste concesse in questi due mesi impietosi, e soprattutto in una lunghissima conversazione fatta con Patrick Davisondi Sky Sport, Guardiola è riuscito a sembrare leggiadro come una farfalla in un momento e irascibile come l’ape nel momento successivo. Ci sono passaggi in cui si improvvisa ultimo discepolo di Eraclito e ripete ossessivamente la sua versione di panta rei, «this too shall pass». Altri in cui sembra essere stato posseduto dal demone del Corvo, in cui il massimo dell’ottimismo che riesce a concedersi è la consapevolezza che «non può piovere per sempre». Usa parole come “broken” e “reset”, alternando il linguaggio della paranoia apocalittica a quello della psicologia spicciola. In altri momenti ancora sembra uno che ha appena finito di leggere e fraintendere Autobiografia di uno yogi: si lancia in astruse elaborazioni del concetto di equilibrio interiore, che per questo Guardiola sull’orlo di una crisi di nervi ammonta a «come ti senti quando l’avversario ti prende a pugni in faccia». E come vuoi che mi senta? Tremiamo all’idea degli stratagemmi che Guardiola può aver elaborato per allenare «la stabilità mentale» dei suoi giocatori. Al momento, per fortuna, non si riportano calciatori del Manchester City con i volti tumefatti. Ma è pure vero che al momento ce ne sono diversi infortunati e vai a sapere se i bollettini medici del club dicono la verità o nascondono qualcosa.

Certo ci sono anche momenti in cui Guardiola si mostra perfettamente consapevole di quello che gli sta succedendo. E cioè: se è vero che non può piovere per sempre, è vero anche che nemmeno può splendere il sole all’infinito. Nell’intervista concessa a Sky Sport di cui si diceva prima c’è un passaggio effettivamente brillante: qual è il modo più facile e più veloce di far capire a un vincente quanto effimera, sfuggente sia la vittoria? Si chiede, retorico, Guardiola. E si risponde, altrettanto retorico: perdere. Capire quanto comune e infestante sia la sconfitta, costruirsi l’immunità assumendo ogni giorno una quantità sopportabile di veleno.

«Mourinho won THREE Premier Leagues.. I WON SIX!»

Spesso ci lamentiamo, e giustamente, di quanto intriso di retorica sia il discorso calcistico. Nella fuga da questa retorica, però, ci dimentichiamo pure che verità e banalità sono parenti strette. Guardiola di questa lotta alla banalità ha fatto la sua missione (come altro si spiega una finale di Champions giocata e persa senza schierare Rodritra i titolari, se non con la convinzione di dover perseguire il bene anche a costo di operare il male) e così si capisce perché questo momento lo sta mettendo così in difficoltà: l’uomo del destino che si riscopre uomo qualunque, costretto ad ammettere– non senza un’abbondante dose di quello che in italiano chiamiamo rosicamento – che senza Dias, senza Stones, senza Rodri, con De Bruyne in pessima forma, partite non se ne vincono. In uno dei momenti più disperati delle scorse settimane, Guardiola ha detto: «Almeno stesse bene Kovacic!». I giornalisti, i commentatori, i tifosi gli chiedono, quasi gli intimano: inventati qualcosa. E lui, sconsolato, non può che ammettere: non c’è niente da inventarsi, il calcio è arte dell’arrangiarsi, si può fare tutto quello che si può fare e niente di più. «Se la soluzione fosse mettere De Bruyne a fare il terzino, lo farei». Sottinteso: non lo è, sono un allenatore e non un inventore, il calcio è manipolazione di materia esistente e non invenzione di elementi nuovi. Poco conta che noialtri lo consideriamo una specie di scienziato pazzo, e ancora meno conta che io, Guardiola, per un attimo vi ho pure creduto.

Certamente la mente di Guardiola non è fatta – quantomeno: non è abituata – per contemplare simili scenari. Forse è per quello che dopo l’inconcepibile 3-3 in Champions League contro il Feyenoord è ricorso all’autolesionismo: era come se volesse aprirsi un varco nella carne, un passaggio largo abbastanza per far uscire tutta la sua mente dalla testa in modo da lasciare spazio libero a una mente nuova, capace finalmente di risolvergli questo letteralissimo grattacapo. Siccome tutti gli artisti vivono di dettagli, anche Tarantino, prima che il suo King Schultz prendesse la decisione più sbagliata, decise che il personaggio avrebbe dovuto passarsi spesso le mani sul volto, grattarsi nervosamente la barba, arricciarsi insistentemente i baffi. Guardiola farebbe bene a riguardare attentamente quella scena e trarre l’unica lezione che davvero conta, la sola che possa veramente aiutarlo: basta un attimo di irrazionalità perché il più impeccabile dei vincenti diventi il più infimo dei perdenti. E poi, magari rivedere Django Unchained gli migliorerà l’umore: comunque vadano le cose per lui, ad aspettarlo c’è comunque un finale migliore di quello che Quentin Tarantino ha riservato per il dottor King Schultz.