Real Madrid, i padroni del gioco

Da Santiago Bernabéu a Florentino Pérez, il Real Madrid è sempre stato un club in cui l'idea di essere al centro del calcio europeo, e non solo, è più forte di qualsiasi altra. E continua a esserlo ancora oggi.

Florentino Pérez non è solito concedere interviste, ma si presenta puntuale in zona mista ogni volta che il Real Madrid vince un trofeo. E lo fa con un unico obiettivo, che non è quello di mettere il proprio cappello sul trionfo, bensì di mandare un avviso ai naviganti: «Godiamoci la festa, ma da domani bisogna cominciare a pensare a come vincere anche l’anno prossimo». Un vero e proprio mantra, che il presidente del Madrid rispolvera per ricordare ai propri dipendenti, dall’allenatore in giù, che quello appena raggiunto non può né deve essere un punto d’arrivo, ma è solo una mera – quasi volgare, perché terrena – tappa intermedia verso la gloria eterna ed eterea. Una filosofia di vita sulla quale il suo padre spirituale, Santiago Bernabéu, ha scommesso all’inizio degli anni Cinquanta, quando si è messo in testa di gettare le basi del club più importante del pianeta e che, da quel momento in poi, non ha più abbandonato la Casa Blanca. Nemmeno tra il 1966 e il 1998, ossia durante l’interminabile lasso di tempo trascorso tra la Sexta e la Séptima Coppa dei Campioni. Perché, per quanto oggi possa sembrare incredibile, non bisogna dimenticare come anche al Real Madrid siano stati, loro malgrado, costretti a fare i conti con concetti come crisi e assenza di trofei.

Tuttavia, anche nei 32 anni di digiuno europeo, i tifosi non si sono mai sognati di mettere in discussione lo status di mejor club del mundo acquisito dalla propria squadra a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Quando, guidato in campo da Alfredo Di Stéfano, il Real Madrid si meritò l’aggettivo di “Grande”, realizzando il sogno che Don Santiago aveva fatto 30 anni prima: vincere dimostrando in campo di essere i migliori e diventando, così, un modello per i club più ambiziosi del continente. Il 3 marzo 1912, ossia quando il giovane Santiago entrò a far parte della società alla quale avrebbe dedicato tutta la propria vita, il Madrid Foot-ball Club non era ancora Real. Il titolo regale, infatti, arrivò soltanto nel 1920. A concederlo fu il re Alfonso XIII, che non avrebbe mai potuto immaginare che, cento e passa anni dopo, la Casa Blanca sarebbe stata la casa reale più famosa di Spagna.

In realtà qualcosa di significativo, in questo senso, era già successo nel 1904, in occasione del meeting in cui fu fondata la FIFA: in una sala di Rue Saint Honoré, Parigi, i dirigenti di alcune federazioni calcistiche europee decisero di creare un nuovo ente internazionale. C’erano i rappresentanti delle federazioni di Francia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Svezia e Svizzera. Per la Spagna, al posto di una delegazione della RFEF – che non esisteva ancora, visto che è stata fondata nel 1913 – c’erano i dirigenti del Madrid. Come se fossero i principi reggenti di un intero Paese, almeno dal punto di vista calcistico.

Oggi il monarca assoluto ha l’inconfondibile silhouette di Florentino Pérez. Un presidente che ha sempre guardato proprio a Bernabéu, almeno per quanto riguarda l’ambizione e la necessità quasi fisica di essere per forza i migliori. E che alla fine ha superato il suo ispiratore: 36 a 33 il computo totale di titoli a favore di Pérez, 7 a 6 quello relativo alla massima competizione europea – quella che prima si chiamava Coppa dei Campioni, che oggi si chiama Champions League e che, se dipendesse da Florentino, domani si chiamerebbe Superlega. C’è una cosa, infatti, nella quale Pérez non è ancora riuscito a raggiungere Bernabéu, uno dei personaggi-chiave, a metà degli anni Cinquanta, della Coppa dei Campioni. Dietro l’ossessione per la Superlega, infatti, non ci sono solo le ovvie ragioni economiche, ma anche e soprattutto l’ambizione di essere ricordato come il principale innovatore della massima competizione continentale per club. Ed è (anche) per questa ragione che Pérez ha avviato – non da solo, ok, ma da protagonista assoluto – una nuova rivoluzione, o quantomeno ci ha provato: la Superlega nata e morta nel 2021 voleva dar vita un nuovo ambiente competitivo a misura di Real Madrid. L’idea, infatti, era quella di creare un torneo ricchissimo, elitario per definizione, con pochissimi posti a disposizione per chi non appartenesse già alla nobiltà del calcio europeo. Fu un tentativo costruito e soprattutto raccontato male, e così fu rigettato – almeno in pubblico – praticamente da tutti coloro che non appartenevano al cerchio magico di Pérez. Conoscendo il presidente del Madrid, è praticamente certo che ci riproverà. Nel frattempo, ha rivinto la Champions per altre due volte. Come dire: forse è il Real Madrid di questa era a essere diventato troppo grande per la Champions.

Il paradosso è che un’altra delle motivazioni che avrebbero spinto Pérez a rivoluzionare la Champions League ci sarebbe la concorrenza sleale di quelli che lui definisce «Club-Stato», espressione diretta dei Paesi arabi. E diciamo paradossalmente perché è la stessa identica accusa che da sempre è mossa al Real dalle altre società spagnole. Compreso da quello stesso Barcellona che, ironia della sorte, è l’unico club a non aver abbandonato il barcone della Superlega nemmeno quando i tifosi di mezza Europa si sono ribellati alla scarsa meritocrazia, diciamo così, del vecchio format. Ebbene, la Casa Blanca dalla seconda metà del XX secolo in poi non si è mai scrollata di dosso l’etichetta di club che Francisco Franco aveva scelto come ambasciatore in Europa della grandeur del suo regime e, allo stesso tempo, come unico baluardo da opporre al Barça di Laszlo Kubala. Che, nella prima metà degli anni Cinquanta, dominava la scena spagnola facendosi portatore, tra gli altri, di valori come la multiculturalità – una cosa che a Franco non andava proprio giù, per lui la Spagna era «una, grande e libera», ma soprattutto «una». Fu così che Alfredo Di Stéfano fu dirottato dalla Catalogna alla capitale. Se la Saeta Rubia si fosse unito a Kubala, il més que un club sarebbe stato ancora più forte. E quindi sarebbe diventato ancora più fastidioso non solo a livello sportivo, ma anche politico. Basti pensare che, durante la dittatura, lo stadio di Les Corts e il Camp Nou erano due dei pochi porti franchi per la lingua catalana.

Il Real Madrid è il club numero uno al mondo per trionfi internazionali: sono 34, di cui 15 Coppe dei Campioni/Champions League

Insomma, nonostante José Samitier – ds del club blaugrana, nonché idolo dei tifosi del Barça – fosse andato fino in Sudamerica per anticipare la concorrenza, quando Di Stéfano arrivò in Spagna, il governo decise che avrebbe dovuto giocare una stagione con il Barça e una con il Real. In questo modo scatenò l’indignazione del club catalano, che non accettò di sottoscrivere quello che considera ancora oggi il più grande sopruso della storia del calcio. Di fatto, però, in nome dei propri principi, il Barcellona consegnò il fuoriclasse argentino agli odiati rivali. Questo fu solo il primo di tutta una serie di piccoli grandi aiuti – dai prestiti concessi ai debiti pagati senza fretta, anche al Fisco – che, secondo i detrattori, la Casa Blanca avrebbe ricevuto dal sistema. Un esempio recente è la cosiddetta Ley Beckham, la legge che permise al Real di ingaggiare l’asso del Manchester United accollandosi, grazie ai considerevoli sgravi fiscali previsti dalla norma (dal 45% al 19,5%), uno stipendio che, di fatto, non poteva permettersi. Da diversi anni, il Palco d’onore del Real Madrid è diventato l’epicentro della realpolitik del paese, un luogo dove mentre si celebra un gol si chiudono affari milionari. Chi vuole essere preso in considerazione da chi prende le decisioni, e non le subisce, deve fare in modo di farsi vedere – e, se possibile, di farsi notare – nell’agorà più esclusiva del Santiago Bernabéu. Ne è cosciente l’Unione Europea che, non a caso, ha provato in passato e sta provando ancora oggi a dimostrare che il Real ha ricevuto finanziamenti illegali di Stato.

Fatto sta che, da quando Pedja Mijatovic ha segnato la contestatissima rete grazie alla quale ha steso la Juventus nella finale della Coppa dei Campioni 1997/98, mettendo fine a un digiuno di oltre trent’anni, il Real non si è più fermato, aggiungendo alla propria bacheca nove coppe dalle grandi orecchie in 26 anni. Un’epoca d’oro che però ha avuto un intermezzo poco felice: nel 2006, sei anni dopo la sua prima elezione, Florentino Pérez decise di dimettersi. Soltanto perché le regole del gioco non erano di suo gradimento. Quell’anno i soci del Real andarono a votare per l’ultima volta, eleggendo Ramón Calderón. Un presidente che durò pochissimo, perché intanto Florentino stava già lavorando per riprendersi il Madrid, stavolta in maniera definitiva: quando presentò la sua candidatura nel 2009 – che si rivelò l’unica, esattamente come nel 2013, 2017 e 2021 – lo fece con l’obiettivo di dare il via a un mandato vitalizio che si assicurò infine nel 2012, quando fece approvare dai soci un nuovo statuto per il club. Che, di fatto, rendeva proibitivo per chiunque non fosse multimilionario presentare la propria candidatura alle elezioni presidenziali del Real. «Non basta saper parlare in pubblico per essere presidente del Real Madrid. Questo non è un club di bocce», disse.

Il resto è storia recente e racconta la trasformazione dello sconclusionato presidente dalle mani buca te nel più abile dei dirigenti. In un manager che, cosciente di non poter competere contro i milioni di sceicchi e magnati per i fuoriclasse belli e fatti, ha deciso di scommettere sulla linea verde, sui campioni del futuro. E, a differenza di quanto succedeva all’inizio del nuovo millennio, ai tempi della sua sballata ossessione per i Galácticos, il suo margine d’errore si è ridotto fino quasi ad azzerarsi a tal punto da restituire, a 15 anni dalla sua ri elezione, l’aggettivo “Grande” al suo Real.

Da Undici N° 59
Foto di Jonathan X. Guimarães