In geologia, un vulcano viene detto quiescente quando non dà segni di attività ma non può essere considerato estinto, cioè spento. Oppure, per dirla meglio: un vulcano è quiescente quando vive un periodo di riposo che risulta inferiore al più lungo periodo di riposo registrato in precedenza. E quindi, potenzialmente, potrebbe eruttare o esplodere di nuovo. Da un momento all’altro. Ecco, queste definizioni descrivono in maniera accurata la situazione della Saudi Pro League (SPL) e del suo impatto sul calcio globale: dopo l’esplosione potentissima dell’estate 2023, che ha fatto vacillare un eurocentrismo talmente storicizzato da sembrare inattaccabile, il mercato del 2024 è stato per l’appunto quiescente, meno convulso e meno scintillante, e allora in tanti hanno pensato che le cose fossero già tornate al loro posto. La realtà, come succede spesso, è leggermente più sfumata: è vero, in effetti i club sauditi non hanno saccheggiato un’altra volta quelli di Serie A e di Premier League e della Liga spagnola, ma in ogni caso hanno piazzato un po’ di colpi ben assestati – Ivan Toney all’Al-Ahli, Marcos Leonardo e João Cancelo all’Al-Hilal, Abou Diaby, Steven Bergwijn e Houssem Aouar all’Al-Ittihad, Mohamed Simakan all’Al-Nassr – e sono riusciti a stabilizzare gli accordi stipulati nel 2023. Non a caso, viene da dire, pochissimi calciatori davvero noti hanno lasciato l’Arabia Saudita dopo aver accettato il trasferimento dall’Europa. Forse ha senso citarne solamente tre, e cioè Jordan Henderson, Allan Saint-Maximin e il portogheae Jota: non proprio i più glamour, tra quelli arrivati in Saudi Pro League.
In un reportage pubblicato da The Athletic a fine luglio, un portavoce della Saudi Pro League ha rivelato che «il budget stanziato per il calciomercato estivo del 2024 è più sostanzioso rispetto a quello del 2023». Sono parole significative, chiarificatrici, in virtù delle quali la quiescenza dei club sauditi deve essere considerata come una mossa già programmata da tempo. E allora è piuttosto ingenuo credere che la rivoluzione cominciata un anno e mezzo sia destinata a non avere un seguito. La verità è che quello di Riyadh è un progetto vivo e in via di consolidamento. Anzi, la definizione esatta è quella per cui la SPL sta attraversando una fase di lucida espansione: accanto ai giocatori stranieri, infatti, il campionato saudita ha iniziato ad accogliere altre professionalità calcistiche di grande esperienza.
Stiamo parlando di allenatori come Steven Gerrard, Jorge Jesus, Laurent Blanc, Stefano Pioli, Matthias Jaissle, ma soprattutto di dirigenti e manager che hanno dimostrato di saper gestire una lega – intesa come ente istituzionale e come gruppo di società sportive – e i singoli club in maniera lungimirante, ovvero guardando al presente e al futuro, attuando dei modelli improntati alla sostenibilità e coltivando un appeal a lunga scadenza. Volete qualche nome? Eccoli: Michael Emenalo, ex direttore tecnico del Chelsea, è stato nominato Director of Football della SPL; Jes Buster Madsen, ex Head of Research and Development del Copenaghen, è diventato Director of Football and Data Science della lega; Lee Conferton, ex osservatore di Atalanta, Leicester e Chelsea, è stato scelto dall’Al-Ahly come direttore sportivo; Fernando Hierro, che non ha bisogno di presentazioni, è stato assunto con lo stesso ruolo dall’Al-Nassr, la squadra in cui gioca Cristiano Ronaldo.
Cristiano Ronaldo, appunto: il suo trasferimento in Arabia Saudita, effettivo a partire da gennaio 2023, aveva tutte le sembianze di operazioni già viste in passato, basti pensare a Pelé e a Franz Beckenbauer che inaugurano il calcio USA nella seconda metà degli anni Settanta, a Totò Schillaci e a Dunga in Giappone negli anni Novanta, a Gabriel Batistuta e a Pep Guardiola e Claudio Caniggia in Qatar all’inizio degli anni Duemila, a Carlos Tévez e Óscar e Hulk in Cina alla metà degli anni Dieci, e ci sarebbero tanti altri casi da citare. In realtà, come succede sempre quando di mezzo c’è CR7, le cose erano molto diverse: erano molto più grosse. E bastava mettere insieme i pezzi, come si fa con i puzzle, per far venire fuori un’immagine chiara, realistica, della situazione. Eccoli, i pezzi: Cristiano Ronaldo ha firmato con l’Al-Nassr dopo che l’Arabia Saudita, attraverso il fondo sovrano PIF (acronimo di Public Investment Fund), aveva già acquisito il pacchetto azionario del Newcastle United, aveva già terremotato il mondo del golf professionistico con la fondazione del LIV tour, aveva già organizzato il primo Gran Premio di Formula Uno a Gedda. E, sempre parlando di F1, aveva già valutato di offrire 20 miliardi di dollari per rilevare l’intero apparato sportivo e comunicativo del Campionato Mondiale dagli attuali proprietari, vale a dire il consorzio americano Liberty Media – la notizia è stata pubblicata anche da Bloomberg, uno dei media più autorevoli del mondo quando si parla di alta finanza, quindi c’era e c’è da fidarsi.
Insomma, i fatti dicono che l’operazione-Ronaldo era solo un tassello – molto prezioso, non c’è che dire – di un progetto decisamente più ampio e trasversale. Anzi, si può dire: di un enorme progetto politico, prima ancora che sportivo. E che, almeno secondo quanto affermato da Amnesty International, «persegue la consueta strategia di tutti i Paesi che vogliono fare sportswashing». Allo stesso tempo, tornando per un attimo solo sul calcio, l’arrivo di CR7 è stato anche come lo sparo dello starter prima di una finale olimpica: entro la fine dell’estate 2023, infatti, i dirigenti e gli appassionati di tutto il mondo si sarebbero resi conto che il fondo PIF aveva rilevato la maggioranza dei quattro club più seguiti e più prestigiosi della Saudi Pro League – Al-Nassr, Al-Ittihad, Al-Ahli e Al-Hilal – e aveva stanziato dei budget enormi per finanziare la costruzione di squadre piene di grandi calciatori, di stelle riconosciute che, una volta ricevuta l’offerta dall’Arabia Saudita, non ci hanno pensato molto prima di accettare. È così che sono arrivati, snoccioliamo giusto i nomi più significativi, i vari Benzema, Kanté, Neymar, Gabri Veiga, Mané, Milinkovic-Savic, Brozovic, Koulibaly e tanti altri. È così che nell’estate 2024, per la prima volta nella storia degli Europei, ben 14 giocatori che militano in una sola lega di un altro continente sono stati convocati per la fase finale del torneo. Ed è così che, come ha detto Pep Guardiola commentando l’addio di Riyad Mahrez, «il calciomercato è cambiato per sempre».

Quando l’Arabia Saudita ha annunciato la propria candidatura nell’organizzare e ospitare la fase finale della Coppa del Mondo 2034, in tanti hanno provato una sensazione di déjà vu: un po’ come è riuscito al Qatar con l’assegnazione dell’edizione del 2022 dopo anni di investimenti sulle infrastrutture e di lavoro diplomatico. È evidente che esistano delle analogie tra le due storie, non solo quelle geografiche, ma anche in questo caso è bene non limitarsi a delle analisi superficiali: a differenza dell’emirato qatariota e di tutti gli altri Paesi che, nel corso degli anni, hanno provato a costruire un universo calcistico partendo praticamente da zero, l’Arabia Saudita ha dovuto mettere a punto un approccio e un modello diversi. Perché, molto semplicemente, stiamo parlando di uno Stato in cui il calcio ha una tradizione non antichissima – la Federazione locale è stata fondata nel 1956, la prima edizione della Saudi Pro League si è disputata vent’anni dopo – ma profondamente radicata. In questo senso ci sono dei numeri eloquenti: le squadre saudite hanno messo insieme sei vittorie (terza quota dell’albo d’oro, davanti ci sono solo Corea del Sud e Giappone) e otto finali perse (record assoluto) da quando esiste la Champions League asiatica, ovvero dal 1967; secondo un’indagine effettuata nel 2022 in tutto il Paese dal Saudi Institute of Public Administration, il 40% della popolazione maschile ha ammesso che la passione esasperata per il calcio «influisce sui rapporti coi colleghi» e spesso «porta ad abusi verbali e persino ad alterchi fisici»; nel 2019, un derby di Riyadh tra l’Al-Hilal e l’Al-Nassr si è concluso con oltre 90 persone soccorse dai medici in servizio allo stadio e negli ospedali circostanti, tra attacchi cardiaci, altri malori meno gravi e i tafferugli che si sono verificati sugli spalti.
In virtù di tutto questo, non è assurdo pensare e dire che in Arabia Saudita stia avvenendo una rivoluzione che non si era mai vista prima. È una questione di dimensioni, di incastri, di opportunità: la cultura, la ricchezza e la demografia del Paese, unite a un’identità calcistica preesistente al puro uragano di mercato, hanno determinato delle condizioni uniche. E allora molti giocatori sono stati – e verranno – attratti da stipendi che non guadagnerebbero da nessun’altra parte, inoltre ci sono quelli di religione islamica che si sentono ben accetti, protetti, compresi, come hanno raccontato Karim Benzema e Moussa Marega, entrambi musulmani emigrati dall’Europa; guardando al pubblico, c’è una nuova generazione di potenziali tifosi – secondo i dati raccolti dall’Economist, il 70% della popolazione saudita ha un’età inferiore ai 35 anni – che hanno cominciato a vivere intensamente il calcio fin da piccoli, ispirati dai loro genitori, e adesso possono godersi un campionato in cui militano tanti giocatori di qualità: il miglior abbrivio possibile per costruire una fanbase reale, non volatile. Certo, c’è ancora qualcosa su cui è necessario lavorare: nella stagione 2023/24 di Saudi Pro League, per esempio, solo gli stadi delle squadre più prestigiose hanno fatto registrare un aumento dell’affluenza, in tutti gli altri impianti le presenze medie sono state addirittura inferiori a quelle delle annate precedenti; inoltre, i dirigenti dei club che non sono entrati nella giurisdizione di PIF lamentano un divario economico troppo elevato rispetto ad Al-Hilal, Al-Ittihad, Al-Nassr e Al-Ittihad – un presupposto che, come dire, non può giovare alla competitività del torneo.
Per cercare di risolvere questi problemi, la strada è già stata tracciata: a maggio 2024 il vicepresidente della SPL, Saad Al Lazeez, ha detto che «nei prossimi anni dovremo concentrarci sul reclutamento di giocatori giovani, preferibilmente di età inferiore ai 21 anni»; inoltre è in via di creazione un nuovo ecosistema tecnico e giuridico che possa supportare i calciatori, in modo che si favorisca lo sviluppo di una nuova generazione di talenti sauditi e che aumenti l’equilibrio interno alla lega. Tutto questo ambizioso programma dovrebbe essere attuato attraverso il lavoro del Player Acquisition Centre of Excellence (PACE), un comitato strategico creato nell’estate 2023 per gestire la nuova era della Saudi Pro League. Per poter domare un vulcano che stava eruttando, anzi che stava esplodendo davanti ai nostri occhi. Che ora sembra inattivo ma in realtà è solo quiescente, quindi potrebbe esplodere di nuovo. Da un momento all’altro.