Per un momento gli attaccanti grossi e muscolosi sono sembrati vicini all’estinzione, catalogati come specie a rischio in un ecosistema ostile. L’evoluzione tattica del calcio li aveva spinti ai margini del gioco, gli allenatori li scartavano in nome di una modernità ineluttabile, facendoli sembrare inadeguati. Era già accaduto ai trequartisti più lenti, quindi nulla vietava di fare lo stesso con i centravanti pesanti. Poi però sono spuntati fuori nuovi modelli di numero 9, prototipi mai visti prima, corazzati e sinuosi, forti e veloci. Un’inedita classe di attaccanti ha restituito centralità a un ruolo che sembrava condannato all’obsolescenza. E non per nostalgia di un’epoca in cui i gol li segnava un energumeno con la 9: i centravanti si sono salvati dall’estinzione grazie alla più darwiniana delle evoluzioni, una trasformazione che ha dato loro nuove capacità e nuove funzioni.
È facile vedere Erling Haaland coordinarsi in aria per andare a prendere il pallone sopra la testa dei difensori, ma colpirlo con il piede, con la suola o con il tallone (ha fatto entrambe le cose nell’ultimo anno) è una cosa mai vista prima. A 24 anni, Haaland è il centravanti più forte della sua generazione, il marcatore definitivo, il tassello che ha completato il puzzle già perfetto del Manchester City – e non a caso appena Guardiola lo ha inserito nella sua formazione è tornato a vincere la Champions League. Haaland è speciale, non c’è dubbio. Ma non è unico. Da un paio di stagioni, in Portogallo, c’è un altro centravanti scandinavo che segna un gol a partita combinando una forza fisica sovrumana con una tecnica di base insospettabile. Allo Sporting CP, Viktor Gyökeres è diventato un cheat code, quello che fa iniziare la partita sempre 1-0, in attesa di vederlo in altri campionati.
Anche in Germania è stato avvistato un esemplare simile: Benjamin Šeško è quello che dieci anni fa pensavamo sarebbero stati gli attaccanti del futuro, con il tocco da trequartista e l’uno contro uno di un esterno, e in più le capacità di definizione di un centravanti vero, puro. Solo che tutto questo lo fa a quasi due metri d’altezza, con una falcata imprendibile in campo aperto e una varietà di scelte pressoché infinita per esplorare i mismatch contro il marcatore di turno. In fondo, è lo stesso che vedevamo nel primo Dusan Vlahovic arrivato in Serie A, alla Fiorentina, qualche anno fa. O quello che dicevamo di Joshua Zirkzee l’anno scorso quando ha illuminato l’attacco del Bologna in tutti gli stadi d’Italia. Nella Nba, dove hanno l’ufficio marketing migliore del mondo, quelli così hanno preso a chiamarli unicorni: giocatori con un corpo futuristico e caratteristiche tecniche e atletiche che non dovrebbero abbinarsi a quelle dimensioni. È per questo che quando ci passano sotto gli occhi le loro migliori giocate restiamo ammaliati in contemplazione come davanti al MoMA o al Guggenheim. Una condizione che oggi sembra un superpotere è nata in realtà dall’esigenza primordiale di sopravvivere. Quindi da motivi tattici più che genetici.
Nell’era del pressing e del gegenpressing, delle azioni costruite con undici uomini a tutto campo, abbiamo pensato che gli attaccanti moderni dovessero assomigliare a Gabriel Jesus o Dries Mertens, al massimo a Pierre-Emerick Aubameyang o Alexandre Lacazette. Punte agili che non hanno niente né di Gabriel Omar Batistuta, né di Christian Vieri, né di Ruud van Nistelrooy. Come sempre, è anche una questione di mercato. Gli attaccanti leggeri e rapidissimi per qualche anno sono stati anche i profili più richiesti. Allora, per non sparire del tutto, i centravanti più strutturati sono cambiati. L’evoluzione tattica del gioco gli ha imposto un dogma di eccellenza, una completezza illogica: gli è stato chiesto di saper giocare indifferentemente fronte e spalle alla porta, di palleggiare e di segnare, di muoversi incontro e attaccare la profondità. Dovevano fare tutto quello che sapevano fare gli altri attaccanti – ormai condizione indispensabile – e in più sfruttare chili e centimetri. Quest’evoluzione per addizione ha reso i nuovi centravanti di nuovo desiderabili, fino quasi a diventare indispensabili.
Chi non ce l’ha, l’attaccante, lo cerca. Prendiamo l’ultima estate italiana: il Milan saluta Giroud e lo sostituisce con Morata; l’Atalanta decide che dopo l’infortunio di Scamacca non può stare neanche un minuto senza centravanti e prende subito Retegui; Conte arriva a Napoli dicendo «datemi Lukaku più altri dieci»; la Roma, dopo aver salutato Lukaku, ha cercato il miglior attaccante disponibile per le sue casse e ha fatto all-in su Dovbyk. Le squadre europee di prima e seconda fascia non possono rinunciare a un perno centrale dell’attacco. Nella Serie A che cambia padrone ogni anno c’è sempre un attaccante che guida la squadra campione. L’Inter di Antonio Conte era una macchina perfetta per automatismi e geometrie, ma è rimasta negli occhi l’intesa telepatica di Lautaro Martínez e Romelu Lukaku. Il Milan campione l’anno dopo trova in Olivier Giroud un nuovo leader fin dal giorno uno dopo il suo arrivo, non solo per il legame immediato con i tifosi (quanto suonava bene il coro “si è girato Giroud”), ma anche perché il suo lavoro di cucitura in mezzo al campo diventava la sponda perfetta per i lanci di Maignan, le sgasate di Rafael Leão e Theo Hernández, gli inserimenti di Brahim Díaz e Franck Kessie. Azioni di cui poi generalmente era lo stesso francese il destinatario finale, di nuovo, in mezzo all’area, a sfruttare il suo corpaccione. E ancora un anno dopo, quello del dominio del Napoli di Luciano Spalletti, a imporsi è un’altra coppia d’attacco, per quanto atipica: quella composta da Kvicha Kvaratskhelia e da Victor Osimhen, centravanti incendiario in area di rigore e valvola di sfogo perfetta quando la ricerca degli spazi si incaglia a metà campo. Fuori dall’Italia avviene più o meno lo stesso.
Il vero segnale è arrivato dalla Spagna, la patria del falso nueve, come ideale chiusura di un cerchio. Morata è stato il centravanti e capitano della Roja agli ultimi Europei. Luis de la Fuente è stato il primo ct vincente dai tempi di Del Bosque, riportando la sua Nazionale al successo partendo da una fiducia incrollabile nel suo attaccante centrale. Per non sbagliare, la riserva di Morata era Joselu, un attaccante uscito anche lui dalla Fábrica del Real Madrid e tornato ai blancos ad interim dopo una carriera lontana dai riflettori. Curiosamente, nel Madrid senza punte che la scorsa stagione ha vinto la Champions League, l’impatto di Joselu è stato gigantesco, ben oltre i 17 gol e tre assist: chiamato in causa da Ancelotti ogni volta che serviva caricare l’area, decisivo nel momento di massima difficoltà in semifinale di Champions contro il Bayern Monaco. Nella squadra di Vinícius Júnior, Rodrygo e Bellingham, un centravanti pivot è tornato utile per occupare l’area, impegnare i difensori, lasciare più libertà a dribblatori e incursori tutt’intorno.
Nella stessa settimana in cui Joselu eliminava il Bayern con una doppietta, l’altra squadra tedesca rimasta in corsa riportava il Paris Saint-Germain nel suo consueto incubo europeo grazie a Niclas Füllkrug, autore di un gol che è un inno al centravanti minimalista: chiama il lancio al difensore, attacca la profondità, controlla il pallone col destro e appena possibile tira con tutta la forza del mondo con il sinistro. «Proprio lui, il centravanti di sfondamento», ha urlato Sandro Piccinini in telecronaca, come per evocare una figura folkloristica a cui in molti non credono più. O non credevano più.
È ormai vecchio di quasi un decennio il grido d’allarme di Arsène Wenger: «L’Europa non produce più attaccanti», aveva detto nel 2015. Wenger aveva ragione a metà, o meglio sarebbe stato smentito da un ritorno al passato che non era in grado di prevedere o profetizzare. È vero che ce ne sono meno che in passato, di centravanti: è ancora merce rara ai massimi livelli, e perfino Bayern, Manchester City e Barcellona non hanno alternative credibili a Kane, Haaland o Lewandowski. Però è anche vero che adesso, di nuovo, tutte le squadre adesso cercano un vero numero 9, ne eleggono uno e lo mettono al centro del loro progetto tecnico. Perché tutti gli allenatori hanno capito come valorizzarli, e loro, i centravanti, hanno ritrovato il loro posto al centro dell’attacco. Al centro della scena.