Liverpool, teorema del club perfetto

Reportage da Anfield, dove la fine del ciclo-Klopp non ha portato a un ridimensionamento. Anzi, le cose stanno andando davvero benissimo. In campo e fuori.

Quando si parla di top club calcistici, spesso si finisce per sovrapporre – e quindi per fare confusione tra – due concetti molto differenti tra loro: nobiltà assoluta e cicli vincenti. È chiaro, le squadre più importanti della storia hanno acquisito e mantenuto il loro status perché hanno vinto tanto, perché hanno conquistato i trofei più importanti e poi li hanno conquistati di nuovo, e ancora, e ancora. In mezzo, però, tutti i club – proprio tutti, nessuno escluso – hanno vissuto dei periodi di magra, privi di successi. Delle stagioni sbagliate, oppure di transizione, oppure ancora di costruzione. La differenza, a pensarci bene, sta proprio nel modo in cui si affrontano e si gestiscono questi inevitabili periodi di siccità: ci sono le squadre che non trovano il modo di reagire, e allora si trasformano in nobili decadute. E poi ci sono le squadre che magari danno l’impressione di eclissarsi, anche per svariati anni, ma che poi tornano sempre a sedersi al tavolo dei giganti. Come se non potesse essere altrimenti, e in effetti è proprio così.

Nell’estate 2024 Arne Slot è stato scelto per prendere in mano il Liverpool-di-Klopp, una squadra-brand che ha fatto divertire il mondo intero e che perciò ha segnato un’epoca, su questo non c’è dubbio, ma che in realtà ha vinto molto meno di quanto abbia perso: la Champions del 2019 e la Premier League del 2020, conquistata per altro nel silenzio pneumatico del calcio senza tifosi causa pandemia, sono stati gli apici – altissimi, bellissimi, meritatissimi – di un percorso scandito da sconfitte dolorose, le due finali di Champions contro il Real Madrid (2018 e 2022), quella di Europa League contro il Siviglia (2016), le volate di Premier contro il Manchester City (2019 e 2022). Nonostante questo andamento sulle montagne russe, com’è giusto che sia, quello di Klopp sarà ricordato come il ciclo che ha riportato il Liverpool dove deve stare, cioè al tavolo dei giganti. È passato praticamente un decennio, forse è per questo che in pochi ricordano cosa erano diventati i Reds prima dell’arrivo del tecnico tedesco: tra il 2010 e il 2015, giusto per rinfrescarci un po’ la memoria, il passaggio di Luis Suárez e gli ultimi anni di Steven Gerrard furono tra i pochi raggi di luce dentro le stagioni grigie di Roy Hodgson, di Kenny Dalglish, di Andy Carroll e Mario Balotelli; il Liverpool era considerato come una romantica outsider per la corsa alla Premier e come un parvenu in Champions League, infatti nel 2014 il Real Madrid venne ad Anfield, banchettò con un eloquente 3-0 e tutto sembrava normale.

La paura era che la fine di un’esperienza come quella di Klopp, così segnante e così catartica, a livello sportivo e a livello spirituale, potesse portare a un triplo carpiato all’indietro, nel senso che potesse far ripiombare il Liverpool nel limbo della mediocrità, della nobiltà decaduta. In questo senso la scelta di affidarsi a Slot, come dire, non era molto rassicurante: agli occhi del pubblico di massa il tecnico olandese esercitava un fascino relativo, la sua limitata esperienza internazionale e la sua aria da bonario uomo del Nord erano in netta controtendenza rispetto all’allure del suo predecessore, alla sua immagine dirompente e dissacrante. Certo, con Slot e grazie a Slot un club rilevante come il Feyenoord aveva riconquistato trofei e credibilità a livello internazionale, inoltre era diventato una squadra davvero interessante dal punto di vista tattico. Ma Anfield, beh, sarebbe stato un mondo diverso. Il Liverpool, secondo la stragrande maggioranza degli analisti aveva bisogno di qualcosa di più, di un manager con un vissuto e uno status più vicini a quelli di Klopp, non solo di un buon allenatore di campo, per di più alla prima avventura in un top club.

Anfield è stato inaugurato nel 1885, e inizialmente ospitava le partite dell’Everton. La fondazione del LFC, nel 1892, è dovuta proprio a una diatriba sul campo di casa dei Toffees. Oggi lo stadio può ospitare 60mila spettatori

In un articolo pubblicato a fine ottobre dal Guardian, Jonathan Wilson ha scritto che «prendere il posto di Klopp sarebbe stata una sfida complicata per chiunque, ma è anche vero che l’allenatore tedesco ha lasciato un gruppo molto forte e con il quale aveva già avviato una fase di ringiovanimento». È una lettura corretta, in effetti Slot avrà anche trasformato il Liverpool in una squadra meno elettrica e più razionale, volendo anche più sinuosa, ma sicuramente non ha dovuto ricominciare tutto daccapo. È così a metà dicembre i Reds si ritrovano in testa alla Premier e al girone unico di Champions, con una sola sconfitta al passivo e 12 gol subiti in 20 gare stagionali. Quella di Slot si sta rivelando una rivoluzione efficace, anche se dolce, perché è stata attuata su un terreno fertile e che aveva già dato frutti rigogliosi, perché il tecnico olandese ha ereditato un progetto su cui la dirigenza e anche lo stesso Klopp, nonostante fosse arrivato al passo d’addio, non avevano e non hanno mai smesso di lavorare.

Ecco, probabilmente è questa la vera chiave del momento straordinario che sta vivendo il Liverpool: nel calcio contemporaneo, la differenza – e quindi la prossimità – tra la nobiltà assoluta e i cicli vincenti si determina attraverso la programmazione, cioè attraverso la capacità di prepararsi bene non solo per quello che accadrà domani, ma anche tra una stagione, tra due stagioni, tra cinque stagioni. In questo senso, la proprietà e i dirigenti del Liverpool sono reduci da una lunghissima serie di scelte corrette: hanno costruito e hanno continuato a rinnovare uno staff ricco e variegato, sia a livello dirigenziale – il direttore sportivo Richard Hughes collabora con il direttore tecnico Julian Ward, e con Michael Edwards, Chief Executive of Football richiamato ad Anfield dopo l’addio del 2022 – che prettamente tecnico, integrando progressivamente le professionalità umane con un utilizzo sempre più intensivo, e sempre più creativo, di database accuratissimi, strumenti tecnologici avanzati, supporti dotati di intelligenza artificiale; hanno allestito la squadra in modo lungimirante, investendo nel momento giusto e per i calciatori giusti, allargando via via l’organico con elementi giovani e di qualità (negli ultimi due anni sono arrivati Darwin Núñez, Gakpo, Szoboszlai, Mac Allister, Gravenberch ed è stato già bloccato Mamardashvili, tutti under 25); hanno incassato cifre significative per giocatori-simbolo ritenuti giustamente a fine corsa (Mané, Fabinho, Henderson) così come per dei giovani che non sono riusciti a mantenere le promesse (Van den Berg, Fábio Carvalho, Neco Williams); hanno investito lavoro e risorse nell’Academy, e così oggi Slot può contare su sei giocatori cresciuti nel vivaio (Alexander-Arnold, Jones, Elliott, Kelleher, Quensah, Bradley) per compilare la lista UEFA e, ovviamente, per ampliare le rotazioni della squadra titolare; hanno lavorato benissimo sul brand LFC, al punto da aumentare i ricavi commerciali fino a 298 milioni di euro nella stagione 2022/23, nuovo record assoluto nella storia del club.

Certo, c’è da dire che tutto questo grande e bellissimo lavoro viene ispirato anche, se non soprattutto, da un contesto decisamente favorevole: il Liverpool è una delle squadre più amate e più riconoscibili del campionato più ricco del mondo, rappresenta una città dall’anima industriale in cui il calcio, inevitabilmente, è sempre stato un pezzo importante dell’identità collettiva, in cui l’altra metà del cielo – stiamo parlando dell’Everton, naturalmente – sembra condannata alla subalternità e alla decadenza eterna; Anfield è una specie di fiore incantato che sorge in un quartiere un po’ residenziale e un po’ decrepito e un po’ abbandonato, è uno stadio evidentemente antico che però è stato ristrutturato nel modo giusto, dentro e intorno l’impianto l’atmosfera che si respira è pregna di storia, di sacralità, ma ci sono anche degli spazi destinati all’inevitabile lato pop – quello social, festaiolo, prettamente commerciale – di un grande club contemporaneo; i pub e i beer garden di Anfield Road, esattamente come le gradinate intorno al campo da gioco, sono popolati di scousers di vecchia e di nuova generazione, di anziani con gli occhi chiari e la pelle arrossata a causa dell’età, di nuovi britannici con tratti e pigmenti di origine straniera, di ragazzini e ragazzine che indossano la maglia di Momo Salah, la sciarpa con la faccia di Trent Alexander-Arnold, il berretto con il liver bird – un uccello mitico metà cormorano e metà aquila, simbolo del club e della città – e la mitica scritta “You’ll Never Walk Alone”; chiunque cerchi Liverpool su Google, proprio in questo momento, vedrà prima il suggerimento “club di calcio” e poi quello “città in Inghilterra”.

“You’ll never walk alone” probabilmente il coro/ inno sportivo più famoso e riconoscibile al mondo: arriva direttamente dal musical Carousel, la cui prima edizione risale al 1945, e veniva regolarmente cantato dal pubblico di Anfield già durante gli anni Sessanta

Insomma, le persone che gestiscono il Liverpool FC avevano e hanno un patrimonio enorme, a tutti i livelli: la tradizione e l’identità dei Reds sono ancora radicate, strettamente connesse con la comunità che rappresentano, ma nel frattempo quello del LFC è anche diventato un marchio globale. Anzi, in questo senso si può parlare di una vera e propria colonizzazione in atto: a fine 2024, ci sono degli Official Store del Liverpool in città come Dubai, Bangkok, Singapore, Giacarta, Chiang Mai (Thailandia), Petaling Jaya (Malaysia). Nell’era delle squadre diventate grandi grazie agli investimenti degli oligarchi o degli stati sovrani, il Liverpool – insieme al Real Madrid – è quella che si avvicina di più a una sorta di perfetto equilibrio tra tradizione e modernità, tra efficienza sportiva ed economica.

Attenzione, questo non significa che stiamo parlando di un club composto da benefattori, da imprenditori-tifosi che lo finanziano senza scopo di lucro: Fenway Sports Group, la multinazionale americana che detiene la maggioranza delle azioni del LFC dal 2010, una delle prime ad aver investito nel calcio inglese ed europeo, deve essere considerata per quella che è, cioè un’azienda che guarda al gioco come una fonte di guadagno. E che in passato ha anche avuto degli scontri con la tifoseria, per esempio quando ha provato a registrare il trademark “Liverpool” o quando ha aderito alla Superlega.

Nel frattempo, però, il Liverpool non ha svenduto completamente la sua anima, non ha dimenticato né smarrito la sua essenza, è tornato a vincere o comunque a essere competitivo ai massimi livelli. E ora sta trovando il modo di ripartire dopo la fine di un ciclo che sembrava dovesse durare per sempre. Non era facile, non era scontato. Non lo è mai. Perché essere grandi ed essere nobili, al giorno d’oggi, non può essere abbastanza.

Da Undici n° 60
Foto di Alessandro Lupelli