La triplice eliminazione di Juventus, Milan e Atalanta ai playoff di Champions League ha rievocato la solita retorica sui problemi sistemici del calcio italiano. Sempre gli stessi discorsi: l’intensità e i giovani e le strutture e la fisicità delle partite europee. C’è un modo di aggredire gli argomenti atletici e fisici del calcio che segue la pancia e mai la testa. Prima della partita di ritorno contro il Feyenoord, Zlatan Ibrahimovic aveva caricato il suo Milan dicendo: «Con il Feyenoord serve un’intensità da finale». Gasperini aveva messo in guardia dai pericoli rappresentati dal Club Bruges: «È una squadra giovane e gioca con grande intensità, non hanno mai cali». Mentre Fabio Capello aveva suggerito alla Juventus di «giocare con la stessa intensità e con la stessa attenzione vista nel secondo tempo con l’Inter». Intensità è la parola magica. Poi sappiamo com’è andata. In studio a Sky, dopo il turno dei playoff, anche Costacurta ha usato le stesse parole, o quasi: «A tutte e tre sono mancate umiltà e intensità, per citare Sacchi e Capello». Delle italiane, è rimasta solo l’Inter a poter dimostrare di essere una squadra fisica e intensa come richiesto dalle coppe europee.
L’intensità sembra essere il valore fisico universale che fa vincere le partite, il proiettile d’argento delle recriminazioni post-sconfitta. La scorsa estate, dopo l’eliminazione agli Europei, Luciano Spalletti aveva cambiato vocabolario per dire la stessa cosa: «Il ritmo e la freschezza fanno sempre la differenza, ho cambiato i giocatori facendoli recuperare e magari in questo momento qui non siamo in grado di fare più di questo. Mondiale? Un discorso che si farà dopo, ci vuole più gamba e più ritmo». Ritmo, freschezza, gamba. Sempre per indicare condizioni atletiche, i corpi dei giocatori mai all’altezza degli avversari. Una fisicità inadeguata.
L’Udinese, per esempio, è una squadra molto fisica
Si parla sempre di fisico, ma si strizzano insieme sfumature diverse. Perché i calciatori e le squadre hanno una pluralità di valori fisici e non tutti li usano e li sfruttano allo stesso modo. In un’accezione classica del termine, quando si parla di fisicità nel calcio si fa riferimento ancora a chili e centimetri. È l’aspetto più immediato e visibile. L’Udinese, ad esempio, è riconosciuta come una squadra molto fisica perché ogni weekend manda in campo sette, otto, nove giocatori che sfiorano o superano il metro e novanta.
La stazza è un valore, lo era nel calcio di trent’anni fa, lo è nel calcio del 2025. Soprattutto in certi ruoli, dice a Undici Alberto Bartali, ex preparatore atletico di Galatasaray, Zenit San Pietroburgo e Sampdoria (e di tante altre squadre): «Nella zona centrale di campo la maggior parte degli allenatori e dei club cercano profili grossi, in particolare i difensori centrali, perché in quel tipo di fisico c’è un punto di forza, una virtù da valorizzare». Da qui arrivano anche certe fissazioni di dirigenti e allenatori e opinionisti. Lo scorso settembre, parlando della capacità di un difensore di fare opposizione a velocità, stazza e fisicità delle ali dribblomani, Pep Guardiola ha detto che serve un certo tipo di stazza: «Se Rico Lewis fosse più alto sarebbe considerato uno dei migliori giocatori del campionato».
Poi ci sono le eccezioni, come poteva essere Fabio Cannavaro vent’anni fa o come potrebbe essere Lisandro Martínez oggi – quando è stato acquistato dal Manchester United è stato subito criticato in Inghilterra, dove l’ideale del difensore inglese è ancora quello del colosso sopra il metro e novanta che non può essere abbattuto nemmeno da una palla demolitrice.
I calciatori sono sempre più alti e forti
Negli anni i corpi dei giocatori si sono ingranditi. I parametri di dieci, venti o trent’anni sembrano inadeguati rispetto a quelli attuali. Uno studio del 2019 dell’Università di Wolverhampton ha rilevato un aumento graduale e costante dell’altezza dei giocatori nel campionato inglese tra il 1973 e il 2013: circa 1,23 cm in più ogni decennio.
L’evoluzione della fisicità nel tempo non ha solo allungato i corpi, ma li ha resi più veloci, più elastici, più resistenti. Trent’anni fa Jan Koller era il prototipo del centravanti alto, grosso e forte, uno che per avere quel tipo di vantaggio doveva fatalmente avere una mobilità scarsa e una tecnica di base inferiore a quella dei suoi colleghi. Oggi anche Lorenzo Lucca, che concede solo un centimetro a Koller, per stare in Serie A deve saper giocare la palla e avere parametri atletici quantomeno nella media. Fino all’impossibile unicorno Erling Haaland (o Viktor Gyökeres, per una versione minore), che sotto un corpo da eroe greco ha una forza motrice d’élite e l’elasticità per toccare un pallone all’altezza della traversa con la punta dello scarpino.
Per questo quando si parla di fisicità oggi si allarga lo sguardo ad altri elementi. «Chi allena o deve osservare i giocatori valuta due componenti distinte come “struttura” e “prestazione fisica”, ugualmente importanti», dice a Undici Marco Montini, che si occupa della preparazione atletica delle Nazionali giovanili della Figc. «Molti osservatori in tutto il mondo, per valutare un giocatore, considerano cinque aspetti diversi seguendo l’acronimo TIPSS, cioè tecnica, intelligenza, personalità, struttura e speed, quest’ultima intesa non solo come velocità ma alta intensità di corsa». I primi tre parametri servono per valutare il calciatore, gli ultimi due inquadrano invece l’atleta.
Come deve essere il fisico di un calciatore?
In uno sport vario e multiforme come il calcio non può esserci un solo tipo di struttura e uno solo livello di intensità fisica per stare ai massimi livelli. Il ventaglio è molto ampio – si può definire uno sport molto democratico, come suggerisce Montini. I corpi che possono stare in un campo da calcio anche ai massimi livelli possono essere molto diversi, a differenza di quelli del rugby, del basket o della pallavolo, dove le eccezioni sono riservate a pochi specialisti.
Non c’è un corpo inadeguato di per sé, ma c’è un modo sbagliato di intendere la fisicità. A esempio misurando i chilometri percorsi, un’indicazione che compare nelle grafiche televisive di tutte le competizioni ma che dice poco della prestazione atletica di un giocatore. L’elemento determinante non è quanti chilometri si fanno in una partita, ma quante volte si raggiunge l’alta intensità, che a sua volta è un parametro con diverse sfaccettature. Non è solo il picco di velocità lineare: nei primi 15 metri di una finale olimpica dei 100m piani la velocità è ancora relativamente bassa, perché si parte da fermi, ma l’intensità muscolare è altissima.
«Il parametro è quello che chiamiamo potenza metabolica e mette insieme due capacità, l’alta velocità e l’alta accelerazione. Quindi si può raggiungere l’alta intensità sia accelerando forte, anche a velocità bassa, sia correndo molto veloce, anche con accelerazione zero perché magari sono già vicino ai 40km/h», dice Montini. Questo, insomma, è quel parametro che gli addetti ai lavori chiamano “speed” nell’acronimo TIPSS.
Gli infortuni e il recupero sono decisivi
Quando si parla di fisicità o di intensità dopo una sconfitta, si dovrebbe parlare principalmente di questo. Perché ci sono dei dati che accomunano le squadre di successo in epoca recente. Quelle che si avvicinano di più agli obiettivi prefissati a inizio stagione, qualunque essi siano, sono quelle con meno infortuni, quindi con una maggior disponibilità di giocatori. Vuol dire che sempre più spesso bisogna focalizzare gli allenamenti, da un lato, per dare ai giocatori una struttura fisica forte, in grado di sopportare gli stress della partita, dall’altro occorre perfezionare ancora le strategie di recupero – a maggior ragione in un’industria in cui il numero di eventi in calendario è una curva che tende verso l’alto senza interruzioni.
Proprio sul recupero, secondo Montini, c’è ancora margine di miglioramento, molto più che sulle tecniche di allenamento sul campo. Alimentazione corretta, terapie del freddo, allenamento invisibile come il controllo del sonno stanno entrando in questi anni nella quotidianità dei grandi club, e abbiamo iniziato solo a grattare la superficie.
Proprio per l’importanza della capacità di recupero, chi costruisce una rosa giovane si dà un ulteriore vantaggio. Che non è solo quello economico degli asset da valorizzare, di un investimento che frutterà in futuro. È un vantaggio immediato. Perché un corpo giovane recupera meglio, ha più capacità di ripetere gli sforzi della partita dal mercoledì alla domenica, al netto di una variabilità individuale che però rientra nella genetica e non fa testo. Per un top club che ha le coppe europee, va avanti nelle coppe nazionali e i suoi giocatori sono sempre convocati in nazionale, avere un’età media di 25 o di 29 anni fa la differenza.
La conferma arriva anche da Fabio Ambrosino, osservatore Figc: «I dati sono sempre più importanti nella valutazione di un giocatore, almeno nella prima scrematura, e si parte sempre da parametri fisici e atletici», dice a Undici. «Lo dico a malincuore perché sono un adulatore della qualità, tecnica e in tutti i piccoli gesti che fa un giocatore in campo». C’è anche un’evoluzione tattica dietro questa tendenza. Il gioco si sta sganciando dalla pulsione posizionale, viaggia verso un approccio funzionale, avvantaggiando in un certo senso i giocatori con corpi più flessibili, adatti a ogni situazione. «La tendenza», conclude Ambrosino «è quella di considerare il motore di un giocatore la base su cui costruire tutto il resto. Per questo si cercano sempre più calciatori fisicamente simili a robot, prontissimi, praticamente perfetti».