Bruno Pizzul è stato molto di più che un grande telecronista

Giornalista di razza, personaggio poliedrico, precursore: abbiamo perso un monumento che ha saputo essere un amico di famiglia.
di Alfonso Fasano 05 Marzo 2025 alle 12:23

Negli ultimi anni della sua vita, Bruno Pizzul è stato percepito in modo bonariamente distorto: l’esplosione – fin troppo fragorosa – della nostalgia calcistica e dei reel lo ha trasformato in una sorta di monumento ma anche di caricatura, era ricordato come il grande telecronista del passato dalla voce strascicata e dall’aplomb quasi imperturbabile, quello perfetto da imitare su un palco durante un monologo comico, la pietrina dell’accendino che va ad accendere la sigaretta in un momento di calma in campo, l’emozione palese ma non eccessiva durante le gare della Nazionale, le frasi iconiche, tutto molto bello, Dino Baggio, Roberto e così via. Non c’è niente di male, anche lui probabilmente accettava questo suo destino: in fondo è stato davvero un’icona ma al tempo stesso un amico di famiglia, una persona di cui si ha rispetto ma con cui si può anche scherzare, che alla fine si diverte anche lui quando viene preso in giro.

Tutto questo, però, ha finito per offuscare un po’ alcune parti della vita e della carriera di Pizzul. Non tanto gli anni da calciatore nella Pro Gorizia, nel Catania, nell’Ischia, nell’Udinese, nella Sassari Torres, quanto l’eredità diretta di quella esperienza: nei suoi primi anni in Rai, infatti, Pizzul era un inviato. Un giornalista di razza. Era uno che coltivava rapporti praticamente intimi con i suoi ex colleghi, che andava nei ritiri delle squadre e faceva parlare i giocatori, che seguiva gli ultimi giorni di calciomercato all’Hotel Gallia di Milano – ovviamente con un approccio e uno stile comunicativo piuttosto distanti rispetto a quelli di oggi – e che intervistava i presidenti, gli allenatori, i giocatori che passavano davanti a lui. L’ha detto/ricordato spesso anche lui, nelle interviste rilasciate dopo essere andato in pensione: quei rapporti, quel senso di libertà e quel cameratismo, dentro i club e dentro la Nazionale, segnano la vera differenza tra il calcio di ieri e quello di oggi. E lo stesso discorso vale anche per il giornalismo, naturalmente.

Il giornalismo, appunto: nella notte più brutta della sua carriera, ovviamente quella dell’Heysel nel 1985, Pizzul gestì la situazione come si conviene a un grande cronista di eventi drammatici, con lucidità e professionalità. Il commento praticamente afono della partita – Juventus e Liverpool disputarono comunque la finale di Coppa dei Campioni dopo la morte di 39 tifosi in seguito ai disordini sugli spalti – fu l’unica strada possibile per venire fuori da una serata assurda, tragica, che ancora oggi viene considerata come una macchia indelebile nella storia del calcio europeo. Non a caso, viene da dire, lo stesso Pizzul parlò così in un’intervista rilasciata al Corriere dello Sport molti anni dopo quella notte: «In casi del genere ti trovi ad affrontare dilemmi tremendi, perché la realtà da raccontare è assolutamente fuori dai normali parametri della cronaca». E Pizzul ne uscì come un gigante.

È stato anche conduttore di Domenica Sprint per 14 ani, di un’edizione della Domenica Sportiva. È stato moviolista, commentatore di altri sport (soprattutto canottaggio, ma anche pugilato, ciclismo, vela, ippica), ha fatto persino l’attore in alcuni film e la voce narrante di diversi spot televisivi. Insomma, è stato molto più che un telecronista di calcio: è stato un precursore, un visionario. In fondo, a pensarci bene, anche il suo trasporto nel commentare le partite ha anticipato tutto quello che sarebbe venuto dopo di lui: è stato Pizzul, di fatto, a istituzionalizzare il supporto manifesto per le squadre italiane nelle coppe europee, la voce che sale o scende di tono a seconda di quello che succede durante le partite della Nazionale, persino il disappunto e le proteste nei confronti dell’arbitro. In questo senso, la telecronaca di Italia-Corea del Sud ai Mondiali 2002 – sì, la partita di Byron Moreno – deve essere considerata un cult, un piccolo gioiello.

Sono passati 23 anni, ma rivedere certe immagini fa ancora un certo effetto

Di fatto, quella contro la Corea è stata l’ultima telecronaca “canonica” di Bruno Pizzul. Lasciò dopo aver commentato la prima amichevole giocata in seguito al Mondiale 2002, un mesto Italia-Slovenia 0-1 di metà agosto. È ricomparso qui e lì negli anni successivi, il suo erede in Rai fu Marco Civoli. E poi arrivarono Sky, Fabio Caressa e Beppe Bergomi. Ecco, quella successione sembrò giusta, naturale, inevitabile: il primo Mondiale senza Pizzul, quello del 2006, segnò anche il passaggio a una nuova era di narrazione calcistica. Pizzul quel passaggio l’ha preparato, l’ha avviato, l’ha accompagnato. Di fatto l’ha determinato e poi si è defilato. Come fanno le persone intelligenti, gli amici di famiglia che però sono dei monumenti veri, altro che caricature.

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