Il PSG è in finale di Champions perché ha smesso di collezionare figurine ed è diventato una squadra vera

La proprietà del Qatar e Luis Enrique hanno avviato la terza fase del progetto. E i risultati sono arrivati anche prima del previsto.

Quando ha fondato Facebook, in una di quelle versioni embrionali molto diverse dalla forma attuale, Mark Zuckerberg ha dato alla sua azienda il motto “Move Fast and Break Things”, muoviti in fretta e rompi le cose. Per Zuckerberg commettere errori era una conseguenza naturale nella strada per il successo in un ambiente altamente competitivo: la migliore descrizione del cinismo capitalista che non guarda mai cosa si lascia alle spalle. Qualche anno più tardi ha dovuto aggiustare il tiro, ha capito che la prima cosa a rompersi sulle sue piattaforme è stata la coesione sociale, poi si è sbriciolata la fiducia nelle istituzioni, nella stampa, nel prossimo. Quindi quel motto è stato abbandonato, ormai più di dieci anni fa, in favore di un più equilibrato “Move fast with stable infrastructure”. Non siamo nel campo della decrescita felice, ma è un passo verso un approccio più sostenibile, almeno a parole.

Tutto e subito

È lo stesso tipo di trasformazione che si è autoimposto il Paris Saint-Germain. Da quando nel 2011 è stato acquistato dal fondo sovrano del Qatar, il PSG è stato l’espressione più estrema del calcio turbocapitalista che consuma tutto e lo consuma subito. In quei primi anni gli sceicchi hanno immesso soldi nel mercato come se sparassero banconote da un cannone, ritagliandosi un posto nell’élite europea un acquisto altisonante alla volta. Zlatan Ibrahimovic e Thiago Silva prima, poi Edinson Cavani, David Luiz, Ángel Di María, e ancora Neymar, Kylian Mbappé e Hakimi, e alla fine anche Lionel Messi e Sergio Ramos. Una superstar dietro l’altra per provare a raggiungere il vertice del calcio europeo il più rapidamente possibile, con l’idea di vincere la Champions League in un massimo di cinque anni. Ogni volta costruendo e distruggendo la rosa secondo i capricci della proprietà qatariota. Move fast and break things.

Proprio come per Zuckerberg, questo approccio a un certo punto ha smesso di funzionare anche per il PSG. Per stare al top – tradotto: avere più chance di vincere la Champions League – nel calcio degli anni Venti devi saper aspettare, devi programmare, devi anche essere un po’ fortunato. E se va male, devi avere una cassetta di sicurezza con cui ripartire. «Dobbiamo costruire le basi, poi arriveranno i risultati», aveva detto Nasser Al-Khelaifi un paio d’anni fa. «Questa è la differenza rispetto al passato. Certo, siamo ambiziosi al 100%, ma in modo più logico. Abbiamo tutto il tempo per lavorare». Queste parole non sembrano poter provenire dallo sceicco che ha speso fantastiliardi in cartellini e stipendi. E sono state pronunciate alla presentazione alla stampa dell’attuale allenatore del PSG.

L’uomo che ha cambiato tutto

Luis Enrique era stato trasparente già in sede di trattativa, la squadra sarebbe cresciuta gradualmente sotto il suo comando, senza isterie né crisi di panico. L’allenatore asturiano aveva promesso vittorie e gloria, come si conviene al cospetto di un (fondo) sovrano, ma non poteva garantire di ottenerle subito. «Abbiamo subito trovato un accordo su cosa volevamo fare. Il nostro obiettivo era creare gradualmente qualcosa di speciale, qualcosa che attraesse i giocatori e li spingesse a venire al PSG, che è un grande club», ha detto Luis Enrique il suo primo giorno da allenatore a Parigi.

La scelta di Luis Enrique come allenatore di un progetto ambiziosissimo ma non schizofrenico non è solo sportiva né tantomeno incidentale. Il tecnico spagnolo ha imposto un sostanziale egualitarismo, in campo e fuori, come concetto che rappresenta meglio di ogni altra cosa la filosofia calcistica della squadra. Una democratizzazione confezionata con la detronizzazione di Re Mbappé, partito per Madrid e salutato così dall’allenatore spagnolo: «Tutti noi sapevamo che Kylian avrebbe lasciato il PSG: per noi non cambia nulla, anzi sono convinto che il prossimo anno saremo più forti. Segnatevi queste mie parole: il PSG sarà più forte». Oggi, con la squadra in finale di Champions League, gli si può riconoscere di aver avuto ragione. Grazie a Luis Enrique il PSG è una squadra più equilibrata, capace di trovare protagonisti diversi ogni sera; una formazione più aggressiva, disposta al sacrificio, capace di dominare gli avversari con e senza palla. Una forza collettiva mai vista prima a Parigi.

È così che l’avevano immaginata proprietà e dirigenza del club, ormai qualche anno fa. In un’intervista a Le Parisien di giugno 2022, Al-Khelaifi disse che «l’era del bling-bling» era giunta al termine. All’epoca nessuno diede peso a una frase del genere: meno di un anno prima lo stesso Al-Khelaifi sembrava intenzionato a comprare la Champions League, ma non potendo arrivare a tanto aveva deciso di comprare tutte le stelle che erano disponibili sul mercato – Hakimi, Donnarumma, Nuno Mendes, Sergio Ramos e Messi. Difficile credere che fosse iniziata un’epoca di spending review. E in effetti il club ha continuato a spendere. Solo in questa stagione, nelle due sessioni di mercato, ha messo a bilancio spese per poco meno di 240 milioni di euro in cartellini. Però sono arrivati João Neves, Doué, Safonov, Pacho e Kvaratskhelia. Età media al momento dell’acquisto: 21,6. Questo dato è il primo indicatore di quel cambiamento di cui parlavano, in momenti diversi, il proprietario e l’allenatore del PSG. Poi, certo, ci vogliono i risultati a rendere tutto più credibile, altrimenti certe dichiarazioni risulterebbero comiche, al limite del meme.

È cambiato tutto

Il Paris Saint-Germain aveva veramente un piano per sviluppare il progetto sportivo in più più fasi. Lo ha raccontato a Tom Williams di The Athletic un dirigente anonimo del club. La prima fase era quella dell’acquisto della società, la seconda era quella che definisce «fase stellare», cioè portare il club nell’élite europea e nella parte più glamour dell’industria calcistica con i volti più riconoscibili del gioco e la diramazione del club nel fashion, nell’arte, nei media, sui social e in ogni altro campo possibile. «La terza fase, di cui si parlava da qualche anno», dice la fonte, «riguardava progetti infrastrutturali come il nuovo centro di allenamento, la creazione di un’eredità a lungo termine, la stabilità finanziaria, un nuovo azionista, più giocatori francesi e una politica sportiva più ponderata, piuttosto che acquistare giocatori che portassero anche benefici extracalcistici».

Questa è anche la prima stagione da quando Qatar Sports Investments ha acquistato il PSG nel 2011 che un allenatore e un direttore sportivo lavorano insieme per due anni di fila. Sembra un dettaglio marginale, anche perché il direttore sportivo non rientra quasi mai nelle cronache del club: in questa storia è l’uomo nell’ombra, formalmente è solo un dirigente esterno pagato come consulente, non un dipendente del club, eppure è un protagonista al pari degli altri. È Luís Campos, il Transfer Genius del calcio diventato famoso per aver comprato e rivenduto a prezzi stellari Nicolas Pépé, Victor Osimhen e Rafael Leão ai tempi del Lille, e poi Fabinho, Thomas Lemar, Bernardo Silva, Tiémoué Bakayoko e Benjamin Mendy quando lavorava per il Monaco. Otto giocatori acquistati per meno di 100 milioni di euro, rivenduti a più di 450.

È grazie a lui se nella finale di Monaco di Baviera il Psg sarà nettamente la squadra con l’età media più bassa, appena 23,6 anni, quindi per definizione anche quella con le prospettive di lungo periodo migliori – ma era già la squadra più giovane tra quelle arrivate agli ottavi di finale. E i Vitinha, Willian Pacho, João Neves, Bradley Barcola e Désiré Doué che contribuiscono a questo dato non sono comprimari, sono titolari, centrali nel progetto di Luis Enrique destinato a durare ancora diversi anni a meno di enormi imprevisti. La squadra che si giocherà la Champions League in 90 o 120 minuti contro l’Inter è una squadra che si è scoperta anche più forte di quel che pensava. In anticipo sui tempi anche rispetto ai piani di Luis Enrique, che a inizio stagione aveva detto: «Non sono qui per vincere la Champions League, sono qui per costruire una squadra». Nelle prossime ore potrebbe scoprire di aver fatto entrambe le cose.

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