Gli allenatori NBA non indossano più giacca e cravatta, e a loro va benissimo così

In pensione i grandi vecchi, da Gregg Popovich a Mike D'Antoni, chi oggi siede sulle panchine più ambite del basket sfoggia lo stesso outfit della palestra: tuta, logo della franchigia. E tanta comodità.

Niente più completi da red carpet, o altre sciccherie sul parquet: nella NBA oggi regna il casual. A partire dagli allenatori, fino a non molti anni fa figure volutamente distacco ed elegante aplomb rispetto alle fatiche un po’ pulp del terreno di gioco – ve lo immaginate un volto nobile come Pat Riley, due volte sulla copertina di GQ, in felpone e scarpe da ginnastica? Ma i tempi sono cambiati. E se i contratti di coach e giocatori sono sempre più milionari – con questi ultimi sempre pronti a sfoggiarlo tra gioielleria hip hop e altri accessori di spicco –, chi siede in panchina ora punta tutto sul casual. Pratico, comodo, time-saving. Con buona pace dell’estetica.

Basta un’occhiata alle Finals in corso. Rick Carlisle da una parte e Mark Daigneault dall’altra: tuta con zip e logo della franchigia. Come un qualunque collega del college o del dopolavoro (ci guadagna l’immedesimazione, su questo nessun dubbio). Prezzo dalla testa ai piedi: 200 dollari a farla grande. E a loro va benissimo così. «Abbiamo votato diverse volte negli ultimi anni», spiega il coach degli Indiana Pacers, a lungo presidente del comitato allenatori dell’NBA. «Il risultato ricorrente è che questo tipo di abbigliamento è stato scelto dall’80-90% dei nostri affiliati, che comprendono anche gli assistenti e i membri dello staff (oltre 200 in tutta la lega). Noi ascoltiamo tutti con attenzione. Ed emerge un chiaro parere condiviso».

La curiosità è che la nuova moda sulle panchine si avvale di un piccolo cavillo regolamentare. Perché il protocollo NBA prevede che allenatori e assistenti si vestano in conformità con il business attire, cioè quegli abiti formali o da ufficio. Viene poi descritto il guardaroba appropriato: giacca, cravatta, pantaloni lunghi. E vade retro scarpe da ginnastica. Soltanto un’eccezione è prevista: i coach sono autorizzati a vestire polo o t-shirt più informali qualora l’outfit risulti uniforme fra tutti i membri del loro staff. Si tratta dunque di una clausola tendente al casual, a partire dalla quale si è innescata la rivoluzione. Data e luogo sono ben precisi: estate 2020, pandemia in corso e post-season nella straordinaria “bolla” di Disneyworld a Orlando. Per ovviare alla torrida estate della Florida, l’NBA concesse allora un “dress code modificato” che riscosse subito grande successo. Da lì in poi, nessuno ha più abbandonato la causa della comodità.

«Ci risparmia un sacco di tempo e rende le nostre giornate molto più facili», ribadisce J.B. Bickerstaff, allenatore dei Pistons di Simone Fontecchio. «Ci mettiamo di meno a decidere, di meno a vestirci. Penso che il nostro aspetto sia comunque professionale. Ma è più funzionale e ci fa apprezzare la semplicità: quasi tutti i miei colleghi la pensano così». Archiviati i tempi che furono, insomma: si dice che il leggendario Chuck Daly, suo lontano predecessore a Detroit, contasse almeno cento completi nell’armadio. E la “sformalizzazione” dell’NBA si riscontra ormai anche negli altri sport. A partire dal calcio, non certo da oggi: con l’Avvocato ancora nei paraggi, mai sarebbe successo che un profilo come Maurizio Sarri, felpa e sigaretta a oltranza, potesse firmare per la Juventus. Mentre il cappellino di Klopp e Tuchel – à la Serse Cosmi – non fa più notizia. L’eccezione ormai è il dandismo latinoamericano di Segundo Castillo, che vent’anni fa nessuno avrebbe notato e che oggi spiazza tutti. Si attende la controtendenza sotto canestro.

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