Come tanti altri club inglesi che possiedono squadre all’estero, ora il Burnley sta comprando una quota dell’Espanyol

Lo strapotere del calcio britannico ormai travalica l'area sportiva e si fa business: sulla lista della spesa anche il secondo club di Barcellona (e investirci non è nemmeno una big).

Altro che euforia da promozione. Dopo il pronto ritorno in Premier League, il Burnley ha deciso di fare le cose in grande: la proprietà del club inglese sarebbe infatti in fase di trattativa avanzata per assicurarsi delle quote societarie dell’Espanyol. Un’operazione d’acquisto che arriva nel solco di una Premier sempre più multi-club, come ormai gli inglesi stessi descrivono il fenomeno. E cioè: il campionato più ricco del mondo cerca nuovi sbocchi d’investimento. E il divario rispetto agli altri è talmente profondo che una squadra come il Burnley, neopromossa dalla Championship, possa comprare pezzi di un club pari ruolo – o perfino superiore, risultati alla mano. Perché l’Espanyol, pur salvandosi all’ultima giornata, quest’anno ha giocato in Liga contro Barça e Real. Ma questo, di fatto, non conta più.

Non è chiaro esattamente quanto sia grande la fetta destinata al Burnley. In questo modo, però, gli spagnoli diventerebbero la seconda società nell’orbita del fondo d’investimento ALK Capital. Ovvero della proprietà americana del Burnley, che fa capo aìl business Alan Pace, che mira dichiaratamente a un modello multi-club e che in passato ha posseduto la maggioranza del Real Salt Lake, franchigia di Major League Soccer. Anche in termini di valore complessivo della rosa, quella inglese (fonte Transfermarkt) sfiora i 200 milioni di euro. L’Espanyol, invece, si ferma a poco più di 100. La vera determinante è però l’asset dirigenziale, con le risorse nelle casse del Burnley di gran lunga superiori rispetto al board del secondo club di Barcellona. Ai cui vertici, al momento, c’è un’azienda cinese nel settore dell’automotive.

Il trend va ben oltre il caso specifico, lungo la direttrice Inghilterra-Spagna ma non solo. Il City Football Group, paperone fra i paperoni, aveva acquistato il Girona già nel 2017. Da poco Aston Villa e Brentford hanno investito in due club minori di terza divisione, Real Unión e Merida. Mentre il Liverpool starebbe valutando di risollevare le sorti del malconcio Málaga. Senza contare, allargando gli scenari, l’impero calcistico targato Red Bull (altro che Carlo V). La ricetta è quasi sempre questa: proprietà araba o americana, una squadra di Premier League come “capitana della flotta” e il resto del mondo a seguire. Con tutti i vantaggi che ne derivano, per le parti in causa, in termine di mercato dei giocatori e presidio di vivai (Africa, Sud America) altrimenti sperduti o costosi da monitorare. Ma la fotografia odierna è fin troppo eloquente: se nel 2020 esistevano soltanto 60 squadre in tutto coinvolte in operazioni multi-club, oggi la cifra è schizzata a oltre 400. Di questo passo sarà impossibile preservare l’integrità delle competizioni. E casi come quello del Crystal Palace – a rischio esclusione dall’Europa League, poiché ha la proprietà in comune con un’altra squadra qualificata, l’Olympique Lione – dall’eccezione potrebbero diventare presto la regola. In attesa di nuove regolamentazioni.

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