L’Everton avrà un nuovo stadio, ma Goodison Park non verrà mai dimenticato

Reportage dalla metà blu di Liverpool per le ultime ore dello storico impianto dei Toffees. Di cui resteranno i ricordi, i brividi, il senso di comunità che trasmetteva alla sua gente.
di Andrea Pettinello/ Il Calcio Inglese

Calma apparente. La sensazione che si ha passeggiando per le strade che circondano Goodison Park, alla vigilia di quella che sarà l’ultima partita di sempre dell’Everton nel suo storico stadio, è esattamente questa: calma apparente. Del resto, i tifosi sono esseri umani semplici e vivono di abitudini. La pinta al pub prima della partita. La stessa strada percorsa per arrivare allo stadio. Le stesse tappe, le stesse facce e le stesse sensazioni che da anni, ogni due sabati, appartengono alla quotidianità. E in L4 (l’area di Liverpool nella quale sorgono i due stadi cittadini) i tifosi dell’Everton non fanno eccezione. Prima una pinta su Walton Road. Poi ci si incammina verso lo stadio. Qualche centinaio di metri a piedi e a seconda dei gusti si vira a destra, imbucandosi su una delle tre famose vie che hanno come capolinea i tornelli di Goodison Park. La preferita da molti è Neston Street, dove una parete completamente blu con il logo dell’Everton sbuca tra le case a schiera tipicamente inglesi, richiamando un sentimento di appartenenza unico, evocativo anche per chi non è esattamente un habitué di questo luogo.

Goodison Road, la strada adiacente all’impianto, brulica di tifosi. Nell’aria si respira una tensione positiva, ma nessuno si azzarda a rendere pubbliche le proprie sensazioni. È solo avvicinandosi a gruppi di amici che aspettano di entrare, mangiando un fish&chips appoggiati al muro esterno del Blue Dragon o sorseggiando una pinta al The Winslow Hotel, che si intercetta il pensiero comune che attraversa la mente di ogni tifoso. Da una parte c’è la malinconia che inevitabilmente colpisce. Come fai ad abbandonare quel luogo che per anni è stata la tua seconda casa? Com’è possibile non emozionarsi ripensando a tutti gli alti e i bassi, i gol, i rigori non concessi, gli sfottò con gli avversari, la pioggia, il vento, il sole e i boati che accompagnavano anche un singolo tackle? Insieme alla malinconia, però, tra i tifosi in questi mesi si è fatto spazio anche l’eccitazione per il futuro e la consapevolezza che il nuovo stadio rappresenti un nuovo inizio, sia per l’Everton sia per la città di Liverpool. Alla domanda: “Cosa porteresti di Goodison Park nel nuovo stadio?”, tutti hanno risposto una sola cosa: la sua gente. Non a caso, i Blues sono conosciuti come “The people’s club”, il club della gente.

L’addio a Goodison Park è stato metabolizzato con la consapevolezza che cambiando “casa” comunque il resto rimarrà. Rimarranno le persone. Rimarrà la spensieratezza dei momenti vissuti con gli amici. Rimarrà quello spirito di unione che lega inevitabilmente tutti gli Evertonians. Ecco il perché di tutta quella calma. In realtà, era una semplice presa di coscienza. Camminando attorno allo stadio insieme a Laura Gates, tifosa e fotografa professionista locale, molto conosciuta da tutti i supporter dell’Everton, tra una chiacchiera e l’altra, ci sono dei silenzi unici. Sono una testimonianza: la necessità di vivere appieno gli ultimi momenti di quello che per oltre trent’anni è stato un luogo sicuro. È per questo che ogni tanto esclama sottovoce: «Oh wow, this is really it». Come dire: è davvero finita?

Laura è una persona molto solare ed entusiasta, ma è anche una delle più eccitate al pensiero che dal prossimo agosto l’Everton avrà uno stadio da oltre 50mila posti tutto per sé. Sarà in una zona totalmente nuova, lontana dal quartiere di L4 e senza dubbio meno familiare (il nuovo impianto è stato costruito sul porto, in riva al fiume Mersey), ma è assolutamente convinta che per quanto Goodison Park sarà insostituibile nel cuore e nella mente suoi e di tutti i tifosi, a Bramley-Moore Dock i tifosi saranno in grado di ricreare quell’atmosfera tipicamente inglese che ha reso famoso l’Everton e la Premier League in tutto il mondo.

Ci sono stato diverse volte a Goodison Park. L’ho visto in tutte le sue forme e in tutte le condizioni atmosferiche. Ho avuto la fortuna di averlo a disposizione per un documentario nel 2018. Ho avuto il privilegio di giocarci e segnare addirittura un gol. L’ho visto emozionarsi dopo una vittoria per 2-0 sul Chelsea e l’ho visto deluso quando lo Sheffield United neopromosso riuscì ad uscirne vincitore. L’ho anche vissuto, in prima persona, partecipando a quattro Goodison Park Sleepout, l’iniziativa benefica organizzata dalla fondazione del club che permette di dormire con un sacco a pelo sugli spalti, con l’obiettivo di raccogliere fondi per i senzatetto e aumentare la consapevolezza generale sul problema degli homeless. Eppure superare quel tornello, imboccare le scale che portano al secondo anello della Main Stand e vedere quel campo per un’ultima volta è stato toccante. Non vorresti mai che quello stadio chiudesse i battenti per sempre. Lo vedi anche da alcune piccole cose.

Per abitudine, gli inglesi spesso escono dallo stadio qualche minuto prima: non è raro vedere intere file di posti vuoti a due o tre minuti dal fischio finale, indipendentemente dalla categoria. Questa volta, però, tutti si fermano. Le squadre fanno un giro di campo per applaudire i tifosi, qualcuno scende di qualche fila per essere ancora più vicino al terreno di gioco. La partita ormai è finita, ma forse la cosa meno importante erano proprio quei 90 minuti. Le ultime foto ai dettagli architettonici che rendono Goodison Park unico nel suo genere. Qualcuno dà una pacca sulla spalla all’amico, come a voler intendere: «È stato bellissimo». Altri semplicemente si guardano attorno. Si godono quello che resta. Uscendo, ripercorro Goodison Road. Ogni dieci passi, mi rigiro per guardare lo stadio. È lì, ma non per molto. Mille ricordi mi attraversano la mente, finché anche l’ultimo angolo visibile della tribuna sparisce tra le case di Spellow Lane. Goodison Park non c’è più.

Da Undici n° 62
Foto di Laura Gates
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