Non sapevo niente di calcio femminile, ma mi ha insegnato tutto

Un racconto in prima persona sui ricordi, gli insegnamenti, la crescita professionale. Dentro un movimento che non ha bisogno di paternalismo, ma solo di mettere il gioco al centro di tutto.
di Alessia Tarquinio
22 Luglio 2025

Io di calcio femminile non so niente. Perché ho accettato di cominciare a scriverne, non lo so. Stavo così bene nei miei articoli di spettacolo, musica, pub con la birra migliore come rapporto qualità-prezzo. E poi io volevo fare la critica musicale. Lo sport era una passione, non una professione. Volevo andare in giro per concerti, intervistare cantanti e band. Il calcio era un momento di svago, novanta minuti sul divano insieme a mio padre. Di più non lo sopportavo. Il calcio, intendo. E pure mio padre. «Pa’, il giornale mi ha chiesto di scrivere di calcio femminile. Io di calcio femminile non so nulla. Mai vista una partita. Come faccio a scrivere un pezzo di cronaca e analisi di uno sport che non conosco?». «Puoi scriverlo su una par tita di calcio maschile? Se pensi di sì, allora di calcio femminile sai già abbastanza. Informati, leggi, studia e scrivi. Il calcio è calcio. Non fare le cose più difficili di quello che sono». Ho sempre apprezzato la praticità di Tarquinio senior. Dove io vedevo problemi, lui aveva soluzioni. E così, mentre io rimuginavo, cercando scuse per evitare una sfida, mio padre – vero grande appassionato di sport – mi metteva da vanti a una grande ovvietà: il calcio è uno. Sono passati trent’anni da allora. E quelle parole sono diventate il manifesto del mio racconto del calcio femminile.

Le mie perplessità, però, erano fondate. Non avevo mai sentito parlare di calcio femminile, mai letto un articolo, mai vista una partita. Eppure, in casa mia, la Gazzetta dello Sport si mangiava ogni mattina. Guardavamo tutti i programmi sportivi in onda, dalla Rai a Telepiù. Non una parola, un frame, figuriamoci una partita. Quell’«informati» si rivelò una missione. Andai in biblioteca, spulciai riviste, usai un pc con una delle prime connessioni Internet: ci voleva un’ora solo per aprire un sito amatoriale che aggiornava il campionato. Stampai tutto, annotai, evidenziai. Archiviai. Rubai anche un paio di riviste (è andato tutto in prescrizione, era per una buona causa). Ho ritrovato quei faldoni di recente durante un trasloco. Che tenerezza. Che voglia di imparare. Quelle pagine sono ancora lì, mezze aperte.

Scrivere di calcio femminile – uno sport di nicchia, o meglio: una costola incrinata del maschile – è stata la mia fortuna. Ho imparato il mestiere del giornalismo sportivo sui gradoni del campo Manin di Sesto San Giovanni, dove giocava la Geas in Serie A. Seguivo ogni allenamento. Estate e inverno. Le calciatrici arrivavano di corsa, tra un turno in fabbrica e una lezione all’Università. Io ero lì con i miei quadernetti a prendere appunti. A imparare. La pazienza che Maria Mariotto, l’allenatrice, ha avuto con me è stata infinita. Non credo di averla mai ringraziata come si deve. Maria, se da trent’anni faccio finta così bene di capirci di pallone, è anche merito tuo. Quelle pagine ormai sbiadite raccontano sacrifici, speranze, trasferte in pullman pagate con la colletta, ambizioni che si fermavano alla domenica. A volte davanti a una pizza studiavano le avversarie, altre volte invece studiavano i capi ufficio per capire come ottenere i permessi per giocare. Una storia di periferia. Di tutte le periferie. La sto raccontando io, ma potrebbe farlo qualsiasi collega che ha iniziato come me alla fine degli anni Novanta o anche prima. Chi ha raccontato questo sport prima di me ha avuto il merito di custodirne la memoria quando nessuno la voleva ascoltare. Io ho solo raccolto il testimone.

E da quel momento, il calcio femminile non l’ho più lasciato. Non l’ho lasciato quando, dopo la carta stampata, sono passata alla TV. E proprio a Sky, anni dopo quei pomeriggi al campo Manin, ho raccontato il Mondiale del 2019. Quello che, per molti, è stato “il punto di svolta”. Ero in studio, ma con il cuore in campo. Lì con loro. Durante quei giorni dissi in diretta che guardare il calcio femminile senza pregiudizi porta le persone ad affezionarsi subito. E lo penso ancora oggi. Quel Mondiale è stato la conferma che il calcio femminile aveva solo bisogno di essere portato in casa della gente. Io avevo già visto stadi pieni, storie incredibili, giocate pazzesche. Ma vedere che anche gli altri, dai loro divani, cominciavano a scoprire , è stato emozionante. Da quel momento ho visto il cambiamento: stadi che si riempivano, curiosità vera, rispetto. Quando ho iniziato a raccontare il calcio le donne in campo erano un dettaglio. Non una notizia. Il calcio femminile esisteva, certo, ma un po’ fuori fuoco. Nessuna copertura mediatica. Nessun investimento. Nessuna voce.

Oggi, però, qualcosa è cambiato. E questa volta, il cambiamento è reale. Nel 2022 è arrivato il professionismo per la Serie A femminile. Un passo storico, che ha finalmente riconosciuto alle calciatrici diritti basilari: contratti veri, tutele sanitarie, contributi previdenziali. Ma il professionismo solo delle calciatrici non basta. Perché se ogni volta che parliamo di calcio femminile il racconto diventa una versione di Cenerentola rivista in chiave moderna da ChatGPT – «Oh poverine, quanto faticano! Che carine! Che grinta!», allora abbiamo un problema. Di professionalità da parte di chi si occupa del racconto. Io davvero ho sviluppato una forte allergia. Ogni volta che mi imbatto nelle sfigatechesiallenanosottolapioggiaconlescarperotteilcuorepuro ho uno shock anafilattico. Quando poi scatta anche il paternalismo esasperato e la morbosità estetica e sessuale perdo proprio il controllo. Ma ci sto lavorando. Mi piacerebbe ci concentrassimo sulle partite di pallone. Vorrei sentire commenti sul pressing, le transizioni e le verticalizzazioni. Sui problemi delle difese o la presenza/assenza di qualità offensiva. Sono anche disposta a farmi rimbambire da statistiche: tutto basta che non si parli di trucchi, cellulite, fidanzamenti e pose ammiccanti.

Il calcio femminile ha sì bisogno di attenzione, ma quella giusta. Intelligente. Informata. Considerazione, non compassione. Ha bisogno di rispetto, non di copertine rosa o spot con calciatrici costrette a mettersi dei tacchi per colpire un pallone e vendere più prodotti. Non perdiamo di vista la credibilità. E noi che abbiamo il compito di raccontarlo, non facciamo sconti ma guardiamo con occhi puliti, microfoni e penne oneste, domande vere. Non cadiamo nella trappola: caricare le calciatrici di responsabilità sociale e missioni salvifiche. Ogni partita non può essere una battaglia. Ogni intervista un manifesto. Come se dovessero rappresentare tutte le donne, sempre, in tutto. Atlete, attiviste, simboli, modelli. C’è un momento per tutto. A volte vogliono solo giocare a pallone. Far parlare il campo. E va benissimo cosi.

Il calcio femminile mi ha insegnato il mestiere, formato il pensiero e il carattere, mi ha insegnato a guardare con attenzione e con rispetto. Quelle pagine rubate dalla biblioteca, quel faldone ritrovato in uno scatolone, oggi stanno sulla libreria accanto ai premi ricevuti, i pass dello stadio e le foto dei momenti più belli. Perché sono il punto da cui è partito tutto. Io di calcio femminile non sapevo niente. Quando non sai niente, puoi sempre iniziare.

Da Undici n° 63
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