C’è un senso di fatalismo nel tifare squadre di provincia, soprattutto nel Mezzogiorno: prima o poi arriverà un punto in cui tutto andrà in rovina. Per Catanzaro quel momento era arrivato poco più di una trentina d’anni fa, nel 1991. Solo tre anni prima, nel 1988, i giallorossi si erano trovati a lottare per la Serie A, ma un paio di stagioni sciagurate li avevano trascinati nei bassifondi della C1. Nel 1991, sul campo, era arrivata la salvezza, ma tre punti di penalizzazione comminati per una presunta combine avevano determinato la retrocessione in terza serie. Da allora, i tifosi del Catanzaro sono andati avanti pane e Serie C, C2 soprattutto. Anni lunghissimi, in cui le altre calabresi vivevano il loro momento di gloria (Reggina e Crotone in A, Cosenza svariati anni in B), mentre Catanzaro cadeva sempre più in basso, in politica, dove perdeva Crotone e Vibo Valentia che diventavano province autonome, e sul campo, tra presidenze farlocche, un fallimento e almeno un altro paio d’occasioni in cui la società ha rischiato di chiudere i battenti per sempre.
Per fortuna, nel 2017, l’arrivo della famiglia Noto ha ridato un po’ di respiro. Il Catanzaro non aveva più problemi di debiti e pagava regolarmente gli stipendi. Non riusciva, però, a superare le colonne d’Ercole dei playoff di Serie C. Sembrava dovesse rimanere imprigionato per sempre in questa categoria, nel “paradiso fantastico” della Lega Pro. Per uscirne, c’è voluta la stagione dei record con Vincenzo Vivarini: 95 punti e il girone meridionale stravinto con 5 giornate di anticipo. Era trascorsa una vita da quando avevamo potuto affrontare con dignità la Serie B, ci sentivamo come Noodles che torna a New York dopo 35 anni in cui era andato a letto presto. A dire la verità, in cadetteria ci eravamo passati tra il 2004 e il 2006, tenuti a galla da un ripescaggio per poi retrocedere con una serie di sconfitte imbarazzanti e un -37 di differenza reti: per molti tifosi quelle due stagioni non sono mai esistite.
Stavolta, però, era diverso, forti di una società solida e di Pietro Iemmello in campo a fare da garante. Oltre ogni aspettativa, ci siamo anche goduti un paio di playoff per la A. La puzza della Serie C, però, quella non ce la siamo levata di dosso, e forse non dovremmo mai farlo, per ricordarci da dove vediamo e quanto sia prezioso tutto ciò che stiamo vivendo. È qualcosa rimasto ben impresso nello zoccolo duro del tifo, nelle facce segnate da anni di delusioni e di playoff persi – 11 in totale, alcuni contro avversari del calibro di Sora e Acireale, altri contro squadre che nemmeno esistono più come Pescina e Cisco Roma.
Il Rocks Bar è il luogo di ritrovo del tifo giallorosso nel pre-partita. È un bar situato praticamente nell’antistadio, visto che il Nicola Ceravolo sorge nel centro della città, tra le case e il carcere minorile. Lì, prima del fischio d’inizio, se chiedi come potrà andare la partita, le risposte possibili sono poche: «’A Madonna ma perdimu», «’A Madonna ma fallimu», «’A Madonna ma tornamu in Serie C». Traduzione: che la Madonna possa aiutarci a perdere/fallire/tornare in Serie C. Parafrasi: i tifosi devono restare coi piedi e godersi il momento, perché fino a qualche mese fa tutto questo sembrava utopia. «Sembrava impossibile potesse capitarmi, e invece mi è successo veramente», cantava Mario Venuti, in una canzone che veniva sparata dai ripetitori dello stadio e che per i tifosi del Catanzaro ha assunto un sapore speciale. Aver abbandonato la Serie C significa proprio questo.
Sembrava impossibile poter ritrovare i propri colori in una dimensione più vicina a quella di cui ci hanno raccontato i nostri padri – il Catanzaro tra gli anni Settanta-Ottanta vanta sette anni di Serie A e due semifinali di Coppa Italia, mentre nel 1966 addirittura arrivò in finale –, poter visitare stadi prestigiosi, oppure, nelle trasferte al nord, potersi ricongiungere con le migliaia di emigrati che hanno lasciato la provincia per cercare fortuna altrove (forse l’aspetto più bello del tifare una squadra del Sud). Per questo la Serie B, oggi, ha il sapore della rivalsa: è un po’ come aver invertito il senso della storia.