Il ct della Nazionale di calcio sudcoreana, l’ex difensore Hong Myung-bo, ha fatto la storia – non solo sportiva – del suo Paese: in vista delle amichevoli che la sua squadra giocherà a settembre, contro Messico e Stati Uniti, ha convocato Jens Castrop, 22 enne centrocampista del Borussia Mönchengladbach. Come avrete intuito dal nome, si tratta di un giocatore che ha origini non esclusivamente sudcoreane. E infatti, qui sta la grande novità, si tratta e si tratterà del primo calciatore multirazziale a essere convocato nella Corea del Sud. Sì, il primo in assoluto: mai prima d’ora, infatti, un cittadino sudcoreano nato fuori dai confini nazionali era stato chiamato nella rappresentativa maschile.
La differenziazione maschile/femminile, in questo caso, è fondamentale: un anno fa, infatti, Casey Phair – attaccante del Djurgårdens IF, il cui cartellno appartiene però all’Angel City FC, club della NWSL – divenne la prima giocatrice multirazziale a rappresentare la Corea in una gara di Coppa del Mondo. Ora anche la Nazionale maschile ha rotto quello che era un vero e proprio tabù storico e culturale. E l’ha fatto a ragion veduta: Castrop infatti è un giocatore di qualità, che prima di rendersi eleggibile per la Nazionale del Paese di origine di sua madre – suo padre, invece, è tedesco – ha giocato con tutte le squadre giovanili della Germania, dall’Under 16 fino all’Under 21 (con la quale ha accumulato quattro presenze). Non a caso, viene da dire, il ct sudcoreano lo ha definito «un elemento di grande esperienza in Bundesliga, che ha uno stile di gioco aggressivo e che quindi può portare nuova vitalità alla squadra». Inoltre, ha aggiunto Hong Myung-bo, «ha dimostrato una forte volontà di unirsi alla nostra Nazionale: spero possa diventare una risorsa importante».
A questo punto, però, è inevitabile chiedersi: perché la Corea del Sud ha dovuto – o comunque voluto – aspettare fino al 2025 per convocare un calciatore nato fuori dal Paese? Risposta semplice: intervistato dalla rivista tedesca DW, Simon Chadwick – professore di sport ed economia geopolitica presso la SKEMA Business School di Parigi – ha spiegato che «molti Paesi hanno sottovalutato l’importanza delle diaspore, per rinforzare le proprie squadre nazionali. Altre nazioni, invece, le hanno completamente ignorate». Nel caso della Corea del Sud, il problema è essenzialmente culturale: parliamo di un Paese dalla mentalità piuttosto chiusa, dove l’immigrazione è poco più che inesistente, dove solo il 5% della popolazione (51 milioni di persone) si definisce «non coreano». Insomma, si tratta di una nazione che guarda con diffidenza alle proprie comunità all’estero, prima tra tutte quella che si è sviluppata negli Stati Uniti. E di conseguenza, come dire, c’è c’è sempre stata una forte resistenza anche solo nel pensare di aggregare elementi multirazziali alle squadre nazionali. Chadwick, in questo senso, ha aggiunto che «nuovi ingressi di questo tipo possono essere accolti come un segnale di cambiamento sociale positivo, a maggior ragione se si pensa che la Corea del Sud è un Paese con una bassissima natalità. Allo stesso tempo, però, i politici con tendenze più nazionaliste potrebbero criticare e quindi sfruttare questa nuova dinamica, nel caso le cose non dovessero andare bene». In ogni caso, però, prima o poi bisognava cominciare. Anche solo per mettersi al pari con la stragrande maggioranza delle Nazionali asiatiche e di tutti gli altri continenti, che si stanno aprendo sempre di più ai loro giocatori multirazziali.