Gli US Open e gli altri tornei dello Slam stanno provando a contrastare il climate change, un pericolo enorme per il tennis

Giocatori, pubblico e organizzatori devono affrontare il caldo soffocante e degli eventi meteo sempre più impattanti, sempre più difficili da gestire.
di Angelo Fortuna 28 Agosto 2025 alle 12:26

Durante i quarti di finale degli US Open del 2023, nel pieno del caldo di mezzogiorno a New York, Daniil Medvedev si avvicinò alla telecamera dopo uno scambio e disse: «Un giocatore morirà, e poi vedranno». Era esausto, madido di sudore, stremato dal caldo. Lui e il suo avversario Andrey Rublev erano in campo da più di due ore e, per resistere, entrambi si alternavano tra asciugamani pieni di ghiaccio, pause lunghissime in bagno per ripararsi dal sole e secchiate d’acqua fredda sul corpo ogni volta che ne avevano l’occasione. Medvedev arrivò a dire che non gli era rimasta «più pelle sul naso», perché era costretto a strofinarselo di continuo per asciugare il sudore. In quella stessa edizione Andy Murray si era fisicamente preparato allo Slam pedalando su una cyclette chiuso nella sua sauna, con il termostato regolato a 35 gradi e il 70 per cento di umidità.

Gli US Open sono il quarto e ultimo appuntamento del Grande Slam, i tornei più importanti e prestigiosi del tennis professionistico. Si giocano sempre a fine estate, e sempre con le stesse incognite climatiche: a New York, in quel periodo, il clima è molto variabile e si alternano frequentemente giornate fresche e piovose a giornate di caldo intenso.  In questi giorni nello specifico, le giornate a Flushing Meadows sono piacevoli e stabili, ma solo due settimane fa a Cincinnati, due ore di volo da New York, il Masters 1000 si è giocato a temperature estreme (il tasso di umidità era al 66 per cento, la temperatura si aggirava intorno ai trenta gradi ma quella percepita era molto più alta). Tanti sono stati i malori sia tra i giocatori che tra il pubblico: il francese Arthur Rinderknech è crollato a terra, accasciandosi nell’unico pezzo d’ombra a bordo campo. Sempre Medvedev, visibilmente stravolto, ha cercato refrigerio infilando la testa in una ghiacciaia della Gatorade. Jakub Mensik non ha retto nemmeno un’ora di gioco ed è uscito da un campo completamente deserto, nelle ore più calde del pomeriggio.

È una tendenza che incide in modo particolare sul tennis, che si gioca quasi sempre all’aperto, per undici mesi all’anno, e in ogni continente proprio per “seguire il sole”: i tornei sono appositamente organizzati nei mesi meno piovosi e con più ore di luce. I giocatori più forti possono permettersi di selezionare i tornei a cui partecipare, gli altri sono costretti a sopportare qualsiasi condizione. Inoltre le temperature influiscono sul gioco stesso. Uno studio pubblicato sul Journal of High School Science ha mostrato che, poiché con il caldo l’aria diventa meno densa e oppone poca resistenza alla pallina, che quindi viaggia più veloce, crescono le possibilità di fare punto diretto con il servizio; allo stesso tempo, spingendo di più per cercare potenza, i giocatori commettono più errori.

Dall’esterno questi cambiamenti sembrano impercettibili. Ma per i tennisti, che hanno un’attenzione quasi maniacale per ogni minimo dettaglio del proprio gioco, contano moltissimo. Il caldo non pesa solo sulla loro resistenza fisica, ma modifica proprio le strategie di gioco: molti giocatori cercano di chiudere rapidamente il punto, forzando da subito colpi potenti, ma rischiando di sbagliare di più (lo stesso Sinner, prima del ritiro, durante la finale a Cincinnati ha provato ad avere questo atteggiamento). E, tornando agli Slam, secondo l’agenzia Associated Press, tra il 1988 e il 2022 la media delle temperature massime nei quattro tornei più importanti del mondo è aumentata di tre gradi.

Il problema non è solo il caldo però. Negli ultimi anni ci sono stati temporali improvvisi, uragani in Messico durante le finali femminili, incendi vicino a Melbourne. Nel 2021, all’Australian Open, i fumi degli incendi avevano reso l’aria irrespirabile: la tennista Dalila Jakupovic è stata costretta al ritiro in lacrime, dicendo di non riuscire a respirare. L’Australian Open è considerato il torneo più a rischio perché si gioca in piena estate australe, in condizioni spesso proibitive: secondo una simulazione elaborata dalla rivista FiveThirtyEight, nel 2050 la temperatura media delle partite degli Australian Open potrebbe essere di 41 gradi. A Wimbledon potrebbe arrivare a 39, il che renderebbe difficile persino mantenere in vita l’erba dei campi, l’elemento più caratteristico del torneo. 

Il riscaldamento globale infatti colpisce anche le strutture. Il cemento e le superfici sintetiche si crepano più in fretta con il caldo, l’erba e la terra hanno bisogno di molta più acqua per restare in buone condizioni e ridurre la polvere. In pratica i campi vanno rifatti o riparati più spesso, con lavori che possono durare diversi giorni. E che costano molto. Poi ci sono i danni da piogge torrenziali, tempeste o allagamenti, che compromettono le strutture degli impianti. Nel Regno Unito si stimano già 320 milioni di sterline l’anno per colpa di eventi meteorologici avversi ed estremi, di cui 200 solo per manutenzione e riparazioni. Con l’aumento delle temperature queste cifre sono destinate a crescere.

Alcuni accorgimenti si stanno comunque diffondendo. Dall’anno scorso agli US Open, per esempio, il tetto del campo Louis Armstrong viene chiuso per fare ombra. È una pratica che è stata aggiunta al protocollo ufficiale contro il caldo estremo che esiste dal 2018, anno in cui ben cinque tennisti furono costretti a ritirarsi già al primo turno a causa delle temperature. Il protocollo prevede che, quando si superano i 30,1 gradi, i giocatori hanno diritto a una pausa di dieci minuti – tra il terzo e il quarto set per gli uomini, tra il secondo e il terzo per le donne – in cui possono usare docce fredde, asciugamani ghiacciati o stanze con aria condizionata. Nel 2018 Novak Djokovic raccontò che in una di queste pause si è ritrovato insieme al suo avversario, completamente nudi nella stessa stanza, immersi in due vasche di ghiaccio per riprendersi. 

Il tennis però è uno sport particolarmente restio ai cambiamenti: il calendario è un enorme puzzle di interessi economici che rende difficile spostare i tornei. Intanto l’80 per cento di essi si gioca all’aperto, le partite possono durare più di quattro ore, e l’aumento delle temperature mette seriamente a rischio la salute dei giocatori. Se durante uno sforzo intenso il corpo non riesce a raffreddarsi, si può andare incontro a crampi, vertigini, nausea, fino al collasso. Oltre al rischio per gli atleti, il tennis professionistico ha un impatto ambientale enorme: i giocatori viaggiano continuamente da un continente all’altro. Secondo la BBC un tennista percorre in media circa 100mila chilometri all’anno, quasi due volte e mezzo il giro del mondo. L’ATP ha creato un’app per monitorare le emissioni dei giocatori, iniziativa che il giornalista Emanuele Atturo ha definito «un’ipocrisia, a essere buoni, visto che gli atleti non decidono i calendari» né i partner commerciali dei tornei. Proprio la classifica mondiale maschile, per esempio, è sponsorizzata dal fondo sovrano dell’Arabia Saudita, uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio.

In questo quadro, il tennis si trova in una posizione paradossale: è tra gli sport che più contribuiscono al riscaldamento globale e allo stesso tempo ne subisce le conseguenze in maniera diretta. E ogni volta che un giocatore sviene in campo, che uno spettatore si sente male sugli spalti o che un torneo va avanti sotto cieli pieni di fumo e vento forte, diventa più difficile far finta che il problema non esista.

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