Da quando ha vinto la medaglia d’argento nei 10mila metri a Parigi – ci sarebbe anche la “doppietta” con i 5mila realizzata due mesi prima agli Europei di Roma, ma si sa che i Giochi Olimpici sono una cosa a parte – la parabola narrativa e mediatica di Nadia Battocletti è entrata in una nuova dimensione: quella della ricerca ossessiva della “normalità a ogni costo”, dell’aneddotica da “ragazza della porta accanto” che esaltasse ancor di più l’eccezionalità insita nel suo essere, già adesso, un’atleta d’élite oltre che un’icona dello sport italiano. in chiave olimpica e non solo. Lo ha fatto, involontariamente, anche lei quando, in un articolo scritto qualche mese fa per The Owl Post, ha raccontato come uno dei complimenti più significativi mai ricevuti sia arrivato mentre era dal panettiere, «in attesa del mio turno».
Se ci riferissimo ad altre superstar – italiane, certo, ma non solo – una polaroid del genere sfocerebbe rapidamente nell’agiografia non richiesta per poi degenerare nel comico o nel parodistico, fino ad arrivare al meme. Ma visto che parliamo di Nadia Battocletti, vale a dire una ragazza normale capace di imprese straordinarie, allora non ci riesce difficile immaginarla dal panettiere, o al supermercato, o in qualsiasi altro luogo dove si svolge la sua vita lontana dalle piste o dagli sterrati, mentre risponde con un sorriso a tutti quelli che la fermano per ringraziarla per ciò che fa e per ciò che è. La sua è la storia di una quotidianità che si manifesta nelle emozioni, nelle connessioni umane, nell’apertura al prossimo, nell’integrazione che non è solo quella espressa dalla fede musulmana che ha abbracciato da tempo, e di cui mostra il lato legato alla ricerca del benessere psicofisico come rivelato in una recente intervista a La Stampa: Nadia Battocletti è una ragazza, anzi una donna, figlia di un tempo in cui il cambiamento è naturale e inevitabile, anche quando nessuno appare disposto ad accettarlo.
Si tratta di leggi più antiche dell’uomo a cui l’uomo non può sottrarsi. E allora una mezzofondista italiana che segue i dettami del Corano e gareggia alla pari con le quasi imbattibili africane è un qualcosa di meno alieno di quanto ci saremmo aspettati anche solo cinque o dieci anni fa: «Siamo ragazzi che non si spaventano davanti alla diversità, anzi ne siamo attratti. E se troviamo qualcosa che ci appassiona davvero, gli sforzi non ci fanno paura» disse Battocletti al Corriere della Sera poco prima di imbarcarsi per la sua seconda Olimpiade, in cui avrebbe dato un prima e decisa direzione a una carriera consacrata al lavoro, al sacrificio, alla disciplina.
In tutto questo c’entra, ovviamente, il suo carattere, la sua umiltà, il suo modo di essere e di relazionarsi con gli altri; ma c’entra anche il suo modo di correre, agile, leggero, sinuoso, elegante ma allo stesso tempo potente, rabbioso, esaltante, coinvolgente. Basta guardare gli ultimi 350 metri della gara di Parigi per rendersene conto. Nadia è lì, in mezzo al gruppo di testa, con – e contro – le kenyane Chebet e Kipkemboi e l’olandese Sifan Hassan, dando l’impressione di aver già dato tutto quello che poteva dare solo per poter restare attaccata al sogno di una medaglia, sogno da cui si era già dovuta svegliare quattro giorni prima dopo la finale dei 5mila metri, al termine di una storia di ricorsi e contro-ricorsi a cui non si era interessata più di tanto anche perché non riguardavano lei. A un certo punto, nel rettilineo opposto a quello del traguardo, Battocletti aumenta la frequenza del suo passo: la sua corsa diventa meno delicata e più brutale, quei piedi che prima quasi sfioravano la pista adesso la aggrediscono come se ogni appoggio dovesse fornire più energia per quello successivo. All’ultima curva si incolla a Chebet come se fosse un’auto di Formula 1 in cerca della scia, supera Kipkemboi che non la vede neppure arrivare e si lancia nell’ultimo allungo: dieci metri in più e avremmo raccontato di un oro leggendario.
E prima che la gioia si impadronisca del suo corpo c’è un attimo in cui il volto tradisce il rammarico di chi sa che la medaglia più importante di tutte era alla sua portata. Perché normale sì, ma agonista ancora di più, come hanno scoperto ad aprile le sue avversarie ai Campionati Europei di corsa su strada, trasformati nel suo show personale – vittoria nella 10 km e nella gara a squadre – sulla lunga strada che porta a Tokyo e ai Mondiali. A quel punto Parigi sarà già lontana e vivremo tutti nell’ennesimo, eterno, qui e ora di una società e di un mondo in continuo mutamento. Qualcosa che, proprio come Nadia Battocletti è impossibile da arrestare.