Elogio della bellezza e della sofferenza, l’Italia è campione del mondo di volley femminile

Le Azzurre hanno battuto la Turchia e hanno fatto di nuovo la storia. In un modo diverso rispetto a un anno fa, ma così forse la vittoria è ancora più bella.
di Redazione Undici 07 Settembre 2025 alle 17:02

Qualche settimana aver vinto lo scudetto sulla panchina del Napoli, Antonio Conte ha detto queste esatte parole: «Cazzo, vuoi pure non soffrire? Se non volete neanche soffrire, mi arrendo». I suoi interlocutori erano i giornalisti di Napoli, ma queste frasi potrebbero andare bene anche per la Nazionale italiana di volley femminile. Che ha vinto il titolo mondiale dopo due partite – semifinale e finale – tiratissime, giocate sull’ottovolante del rendimento e delle emozioni, che in alcuni momenti dell’ultimo atto contro la Turchia è completamente sparita dal campo, eppure alla fine è riuscita a far valere la sua maggior qualità, la sua maggior forza. E alla fine è arrivato un oro stupendo, indimenticabile, meno comodo rispetto a quello vinto un anno fa a Parigi, ma in fondo lo sport può essere – a volte deve essere – anche sofferenza. Come dice il teorema di Antonio Conte.

La finale contro la Turchia è stata una partita dura, appiccicosa, per certi versi inintelligibile. Perché Santarelli l’ha preparata benissimo, con schemi centrali che hanno puntualmente bucato il muro e messo in crisi la ricezione delle Azzurre. Perché all’improvviso Melissa Vargas subiva dei passaggi di stato che la facevano somigliare a un cacciabombardiere, e così diventava incontenibile. Perché, come detto, l’Italia ha vissuto dei momenti di assoluto black-out, delle botte d’assenza che hanno vanificato le vittorie punto a punto nel primo e nel terzo set: il secondo e il quarto parziale sono scivolati via come sabbia tra le dita, la difesa turca respingeva tutto e così l’Italia finiva per sfilacciarsi, per disunirsi, per trasformarsi in una squadra leggerina in attacco e friabile in difesa.

Poi, però, durante la partita sono arrivati i momenti che contano. Il finale del primo e del terzo set, gli ultimi punti del tie-break. Lì è venuta fuori un’Italia brillante, decisa, trascinata da Egonu e da Sylla (anche loro hanno giocato a corrente alternata, ma sono state determinanti nei punti più caldi del match) e poi, all’ultimo scatto, da Antropova e da una continuità impressionante al muro. È stato come se le Azzurre avessero riservato il meglio del loro repertorio tecnico per gli attimi che hanno deciso la finale. Bellezza pura dopo lunghi tratti di sofferenza. E infine gioia, tanta gioia. Come dice il teorema di Antonio Conte.

Come la semifinale contro il Brasile, forse anche di più, questa medaglia d’oro oro mondiale ha chiuso un bel po’ di cerchi. Intanto ha fatto ripartire un orologio fermo da 23 anni, dall’ultimo e unico titolo mondiale delle Azzurre. Poi c’era da bissare e quindi legittimare – non che ce ne fosse bisogno in assoluto, è lo sport d’élite che funziona così – la medaglia d’oro conquistata alle Olimpiadi di Parigi dell’anno scorso, un successo storico che adesso non potrà essere considerato come un exploit isolato, ma come parte di un ciclo che in realtà era iniziato molto tempo fa – in occasione di un altro Mondiale, quello di Yokohama 2018. Che sembrava fosse stregato e invece prosegue e si rinnova ormai da un lustro (il primo oro pesante è arrivato nel 2021, agli Europei).

Poi ovviamente c’era e c’è il record di 36 partite vinte di fila, che hanno portato a due ori ancora più pesanti e a due successi in World League. Poi ci sarebbero le storie romantiche di Julio Velasco e di Monica De Gennaro, quelle – non più così utopistica – della Nazionale femminile che comincia a mettersi di fianco alla Generazione di Fenomeni, sia per quantità che per qualità di successi, il movimento che cresce, gli/le appassionati/e che aumentano, i primati di share alla tv, la riconoscibilità di Egonu, Sylla, Fahr, Antopova, la stessa De Gennaro: un gruppo di icone, ormai, più che di pallavoliste. È tutta un’esplosione di emozioni fortissime, che stavolta sono state forgiate anche nella sofferenza. Non c’è niente di male, anzi: forse così è addirittura più bello.

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