Quella di Valentina Petrillo è una storia di affermazione che ha aperto molti dibattiti, e che può davvero cambiare le cose

L'atleta paralimpica è tra i candidati per Aura Sport & Cultura Award.
di Redazione Undici 17 Settembre 2025 alle 12:23

Sognava la pista di atletica guardando sfrecciare Pietro Mennea. Un giorno, molti anni dopo, Valentina Petrillo è riuscita a provare quei brividi in prima persona. Alla sua unica, personalissima maniera: non c’era mai stata alcuna atleta transgender a partecipare alle Paralimpiadi, prima di lei a Parigi 2024. Tra mille polemiche, controversie, dubbi legittimi e deprecabile shitstorm. Valentina però, 51enne di Napoli, sapeva benissimo a cosa sarebbe andata incontro. «Porto con me un bagaglio di diversità che nella storia non c’è mai stato», raccontava Petrullo nei giorni del main event, mentre a Parigi si consumava la storia. «Per questo il mio messaggio più importante è di essere sempre noi stesse».

A pensarci bene non basta essere i primi a, per fare la storia. Ci vogliono una sensibilità e un senso di responsabilità in grado di cambiare – o quanto meno di influenzare – l’opinione pubblica italiana e globale attorno a un tema delicatissimo. E cioè l’opportunità o meno di includere gli atleti transgender – con caratteristiche fisiche e connotati biologici maschili – nelle competizioni sportive femminili. Petrillo non è andata ai Giochi Paralimpici per provocare, per piantare una bandierina e per creare disturbo sfidando lo status quo – anzi: critiche e polveroni mediatici sono un effetto collaterale della sua presenza in gara che puntualmente le si ritorce contro. «Sono la prima a pormi certe domande», ha invece dichiarato durante la manifestazione a cinque cerchi. «Un tempo, quando avevo deciso di smettere di correre perché non me la sentivo più di farlo da uomo, me lo chiedevo di continuo: “Che cosa penserei io, se fossi biologicamente donna, vedendo Valentina ai blocchi di partenza?”. Penso che sia legittimo e normale fare certe riflessioni. Semmai c’è un problema di informazione: bisogna parlare di queste tematiche, senza avere paura di farlo. Se noi ci facciamo delle domande, anche il mondo dello sport inizierà a farsele». Il passaggio alla gente comune, in queste condizioni, diventa naturale, spontaneo.

Ed è questa la vera medaglia della velocista – poi non qualificata alle rispettive finali, nei 200 e i 400 metri piani in classe T12, dove invece aveva vinto il bronzo mondiale l’anno precedente. Per la maggior parte della sua vita ha dovuto fare i conti con la sindrome di Stargardt, che l’aveva resa ipovedente già in adolescenza. Nel frattempo era già chiara dentro di lei la questione identitaria: «Volevo gareggiare e volevo farlo come donna ma sono nata maschio e questa è stata la cosa più difficile da affrontare, innanzitutto con me stessa», ha spiegato a Vanity Fair, raccontando tutte le difficoltà incontrate durante il percorso. Rivelare sé stessa al mondo, fra le mille ostilità di chi la circonda, con l’omotransfobia purtroppo ancora radicata in Italia. «Ho fatto coming out dopo i quarant’anni perché era l’unico modo per sopravvivere. Ho combattuto contro me stessa e contro le mie paure, sono nata in un quartiere degradato di Napoli dove si diceva che era meglio essere camorristi che femminielli, ovvero i maschi con atteggiamenti femminili».

Quella di Valentina Petrillo è una storia di affermazione e di attenzione conquistate col tempo, nel tempo. Perché l’identità di genere non può in alcun modo mettere a repentaglio i diritti delle donne, sia sul piano sportivo sia su quello socio-giuridico. Al contempo, su entrambi i piani, le persone come lei oggi non sono e non si sentono abbastanza rappresentate. E ogni giorno finiscono nel limbo dell’emarginazione, anche perché manca un ordinamento chiaro e organico che definisca i loro spazi. Dando così sfogo a cortocircuiti, incertezze e incongruenze – si pensi al caso Khelif, che transgender non è, al contempo campionessa olimpica e squalificata dall’IBA per i livelli di testosterone considerati troppo alti. Insomma: c’è un grande vuoto da colmare, e la voce di atlete – e di persone – come Valentina può soltanto aiutare a mostrare la via.


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