Marco Belinelli è un simbolo di eterna passione, di sconfinata voglia di basket

Il cestista italiano è tra i candidati per Aura Sport & Cultura Award.
di Redazione Undici 24 Settembre 2025 alle 08:28

Ci piacerebbe vederlo per sempre lì, in uscita dai blocchi, sospensione acrobatica dalla linea dei 6,75. Il suo tiro: quello che per un quarto di secolo ha fatto conoscere al basket Marco Belinelli. Un ragazzo come tanti, che alla semplicità dei gesti e delle parole ha unito una classe fuori dal comune. È il primo e l’unico italiano di sempre in grado di vincere l’anello NBA, nel 2014 coi San Antonio Spurs. Il primo e l’unico ad aver conquistato anche la prestigiosa gara di tiro da tre nell’All-Star Weekend – sempre nel 2014 –, prima di cedere il testimone a sua maestà Steph Curry. Prima e dopo, i successi in Italia. Nella sua Bologna. Fortitudo più Virtus: tre scudetti a distanza di due decenni, l’ultimo soltanto pochi mesi fa. Festeggiato tra la gente della sua città, quando il fisico insisteva a chiedere il conto di una carriera giocata a mille. Poteva esserci congedo migliore?

Probabilmente no. Lo sa anche lui, con la saggezza sportiva dei suoi 39 anni. E la vena poetica che l’ha portato a scrivere, più che un messaggio d’addio sui social, una vera e propria ode allo sport e al giocatore che è stato (la riproponiamo qui sotto).

Ci ho messo il cuore.
Ogni briciolo di me stesso.
Ogni singolo giorno.
La pallacanestro mi ha dato tutto… e io ho dato tutto a lei.
Non è facile dire addio.
Ma è il momento.
Porto con me ogni emozione, ogni sacrificio,
ogni applauso.
Grazie a chi c’è sempre stato.
Ai più giovani,
lascio un sogno.
Fate in modo
che ne valga la pena.

L’ultima frase vale per tutti. C’è da fare tesoro di un fuoriclasse dall’entusiasmo contagioso, che ha lasciato il segno su intere generazioni di italiani in arresto e tiro. È sempre stato un passionale, Beli. Sin da quando bruciava le tappe da enfant prodige del basket bolognese, per poi scuotere la testa quando l’NBA – all’inizio, a Golden State – sembrava non dargli quell’opportunità che lui sentiva di meritare. E di poter dimostrare sul parquet, a suon di fiammate da oltre l’arco. Tecnicamente ce ne sono stati pochi di tiratori come lui: con la sua affidabilità, con la sua intelligenza tattica e capacità di segnare in condizioni proitive, piroettando fuori dalla marcatura, realizzando canestri dall’altissimo coefficiente di difficoltà. Belinelli ha saputo essere trascinatore – in Nazionale, alla Virtus – e ha saputo essere gregario – a San Antonio –, in base all’occorrenza collettiva, con la medesima efficacia di rendimento.

“Dicevano che non avessi il fisico né il carattere, che non ero abbastanza aggressivo”, raccontava a Vogue Italia. “Non ho risposto a parole, solo coi fatti sul campo. Mi piace far cambiare idea a chi mi massacra, perché allo stesso tempo, non me ne frega niente: all’inizio sì, me la facevo un po’ sotto, ma poi ho imparato ad annullarmi, in campo mi astraggo, entro in un’altra dimensione, sento solo quel rumore della retina quando la palla entra che mi fa innamorare come quando ero bambino, e così faccio l’ultimo tiro della partita, quello decisivo, in NBA o nella finale scudetto italiana come se fossi da solo al campetto, uguale”. Poi la frase clou, essenza del personaggio: “La classe è far sembrare facili le cose difficili. Per prendersi quei tiri importanti serve coraggio. E io ne ho”.

Come si fa a non stravedere per un giocatore così, capace di cambiare le partite e al contempo di colpire con la dissacrante arguzia di chi va dritto per la sua strada? Se in America vanno fatte vedere le giocate di Steph, per avvicinare i ragazzini al gioco, in Italia serviranno in loop i canestri di Marco – che di secondo nome fa Stefano – anche adesso che non ne realizzerà più. Un vero e proprio beniamino di due mondi: sono in pochi gli italiani che al tempo stesso sono riusciti a incassare i complimenti di Barack Obama e Chris Paul – uno dei grandi mentori della shooting guard, insieme a Manu Ginobili. E oltre i risultati, per Beli sono sempre contati i modi: devozione, riconoscenza. È tornato a San Antonio anni dopo l’anello, è tornato nella sua Bologna per chiudere il cerchio definitivo.

Non poteva esserci finale migliore, si diceva. Anche se il finale, più si adora la cosa da cui ci si separa, è comunque un concetto spaventoso. “Ho paura di smettere. Vorrei che non succedesse mai, perché dopo non so cosa farò”, ammetteva Marco a pochi mesi dal ritiro. Poi però quand’è successo, il dramma s’è sciolto in un sorriso. “Forse paura non era la parola giusta: sapevo che avrei lasciato una parte importante di me, sono cresciuto con un pallone in mano e mi sono accorto che il tempo vola. Ma ora vedo una vita con mia moglie e le mie fantastiche bimbe. Da poter finalmente dedicare a loro, dopo tanti anni anni trascorsi in palestra, nelle arene e sugli aerei”. Passione che si perpetua, ben oltre il basket.



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