Massimiliano Allegri ha già rimesso ordine nel Milan dopo anni di caos

Il nuovo allenatore rossonero ci ha messo poco, pochissimo, a rimettere le cose a posto. Sia in campo che fuori, anche grazie all'aiuto di Tare e alle scelte del club.
di Antonio Belloni 08 Ottobre 2025 alle 10:41

Durante la scorsa stagione, le partite del Milan sembravano qualcosa di marginale, un semplice dettaglio all’interno di una serie televisiva che giorno dopo giorno produceva casi mediatici, dichiarazioni inopportune e un crescente malcontento nei tifosi. Il chiacchiericcio di sottofondo era costante, già alla seconda giornata di campionato, durante Lazio-Milan, Paulo Fonseca fu delegittimato da Theo e Leão – i due giocatori più importanti della rosa – nella surreale scena del cooling break disertato. Nel postpartita, nessun dirigente difese il tecnico portoghese per cercare di consolidarne la posizione. Quello fu solo il primo di una lunga serie di teatrini tra ammutinamenti, rigori strappati ai compagni per affidarli agli amici (Fiorentina-Milan), continue espulsioni e dichiarazioni autoreferenziali di dirigenti che, a turno, finivano con l’inimicarsi il tifo milanista. Disordine, poca serietà, e un insopportabile rumore di fondo che rendeva impossibile preparare una stagione sportiva di successo.

Quest’anno le cose sono molto diverse, intanto perché tutto è tornato a ruotare attorno al campo. Che il Milan perda – come all’esordio contro la Cremonese – o che faccia buoni risultati, come accaduto nelle successive partite, il focus riguarda le prestazioni sportive, l’apporto dei singoli giocatori, le riflessioni sul nuovo sistema di gioco e su un equilibrio tattico che Allegri, per altro, sembra aver già miracolosamente trovato. A Milanello, quel perenne ronzio di polemiche che aleggiava nell’aria l’anno scorso, sembra essersi spento. Dopo due stagioni di ostinata ricerca di strade alternative, il Milan ha deciso di affidarsi a un direttore sportivo navigato come Igli Tare, meritevole dell’intuizione fin qui più geniale della stagione di Serie A: prendere Luka Modric. Non tanto perché ha capito che Modric avesse ancora tanto da dare, in questo senso bastava rilevare l’altissimo minutaggio che il croato ha avuto a Madrid l’anno scorso per rendersene conto, quanto per la decisione con cui l’ha convinto, in un blitz a casa di Luka, in Croazia.

Dopo Milan-Monza, in occasione di una delle proteste più feroci e sentite degli ultimi anni, i vertici rossoneri hanno avuto l’intelligenza di capire che, per ripartire con entusiasmo, il progetto doveva affidarsi a dei nuovi volti, che serviva un cambio di strategia. Anche a costo di rinnegare alcuni pilastri della filosofia societaria. Il Milan è quindi ripartito da ordine e semplicità: un direttore sportivo con una consolidata esperienza in Serie A e un allenatore che, al primo impatto, potesse trasmettere serenità all’ambiente e ai tifosi. Un allenatore magari dal curriculum vincente, dalla battuta sempre pronta e dai modi di fare a volte persino caserecci, capace di restituire un senso di familiarità a un Milan che i tifosi percepivano sempre più distante. E allora chi, meglio di Massimiliano Allegri, l’allenatore preferito dalla metà (almeno) degli italiani?

È la prima conferenza della stagione. Max entra nella sala conferenze di Milanello e saluta i giornalisti con un sonoro «Buongiorno!» abbinato al suo solito sorriso contagioso, a metà tra l’ingenuo e il furbo. Nella sala, tutti i presenti scoppiano a ridere. Forse, chi era indeciso tra una domanda scomoda e una più accomodante, decide di mettere una x sulla prima. Con un semplice saluto, Allegri si è già conquistato i favori di una sala stampa che, un anno prima, agli occhi di Fonseca, doveva apparire come un esercito di arcieri pronti a scoccare frecce velenose. Allegri e Tare hanno il grande merito di aver restituito al Milan una conformazione da squadra di calcio. Sembra banale, ma il Milan l’aveva persa. Niente più interventi esterni a Milanello e dichiarazioni contraddittorie: alla squadra, quest’anno, ci pensiamo noi. Come un grande manager d’azienda, una metafora che ha utilizzato spesso, Allegri ha ereditato un Milan in preda al caos a ogni livello (comunicativo, strategico, tecnico-tattico) e in ciascuna dimensione è partito da quella parola che è stata insieme il suo mantra, la sua fortuna, ma anche la sua croce nell’inesauribile (e insulso) dibattito tra giochisti e risultatisti: semplicità.

Le rivoluzioni, da che mondo è mondo, devono coinvolgere le masse: schiere intere di uomini devono credere profondamente in un ideale, e devono farlo con una convinzione tale da essere disposti a sacrificarsi in battaglia, pur di vederlo realizzato. Perché ciò avvenga, gli ideali in questione devono essere comunicati con semplicità e chiarezza. Qualche giorno fa, Christian Pulisic, il giocatore più importante di questo inizio di stagione del Milan, ha parlato così del suo nuovo allenatore: «Ti viene voglia di giocare per un allenatore come Allegri, si schianterebbe contro un muro pur di vincere». Insomma, Massimiliano Allegri sembra già aver convinto il suo popolo a seguirlo. Le scelte di campo, poi, non fanno che riflettere la serenità che il Milan sembra aver finalmente riacquisito a livello ambientale. L’obiettivo, anche qui esposto con chiarezza, era risolvere i problemi difensivi di una squadra che da anni prendeva troppi gol. «Niente più corse per il campo a inseguire l’uomo», come ha detto Tomori in riferimento alla tendenza del Milan, da Pioli in poi, di difendere uomo contro uomo, rischiando spesso di prendere imbarcate per le praterie di spazio concesse alle spalle dei difensori e per i buchi spesso non coperti a sufficienza dai centrocampisti.

Dal punto di vista puramente tattico, Allegri è partito da un 3-5-2 che, in fase difensiva, si trasforma in una linea difensiva a cinque in blocco medio-basso, in modo tale da coprire l’ampiezza e non concedere profondità alle spalle; in mezzo, invece, i centrocampisti devono fare tanta densità e non farsi attirare dall’avversario. Il pressing è un meccanismo – in questo caso si potrebbe usare anche il termine “vizio” – che si attiva solo in momenti specifici della partita. In otto gare stagionali, il Milan ha preso gol su azione solo all’esordio contro la Cremonese: da lì in poi, cinque clean sheet in quattro partite di Serie A, l’ultima volta ci era riuscito nel 2006/07.

Anche nella scelta degli uomini, Allegri si è affidato alle certezze, laddove invece, il Milan, troppo spesso negli ultimi anni aveva ecceduto nelle scommesse di mercato in una logica da finanza speculativa, più che da campo. Non a caso, viene da dire, la squadra è stata messa nelle mani del pallone d’oro Modric e del figlioccio calcistico di Max, Rabiot: trentenne, stipendio alto, una sfilza di problemi extracampo alimentati da un’agente-mamma troppo invadente; insomma, la nemesi del Milan di RedBird. Eppure, in sole quattro partite, Rabiot ha dimostrato come sia necessario, a volte, fare uno strappo alle regole per calciatori che assicurano un salto di dimensione alla squadra. Il suo Milan è anche ripartito da Matteo Gabbia, uno dei pochissimi baluardi di serietà e milanismo nelle ultime due stagioni, sempre chiamato a parlare ai microfoni dopo le peggiori disfatte; e da Alexis Saelemaekers, figlio di quella famiglia che era l’ultimo Milan scudettato, tornato da due anni di Erasmus da Thiago Motta e Ranieri che l’hanno reso un calciatore maturo, tecnicamente indispensabile per la qualità di palleggio del Milan.

Oggi, il Milan, dopo due stagioni di caos, è tornato a essere squadra. Il ritorno dei tifosi (e del tifo) a San Siro e la velocità con cui è cambiato il racconto dei rossoneri, soprattutto rispetto all’ultima stagione, dimostrano come il calcio sia lo sport con la memoria più corta in assoluto: quando i risultati arrivano e la squadra in campo coinvolge i tifosi, in un attimo le contestazioni si placano e il rumore dei fischi si trasforma in un grido di incitamento. Ad Allegri, ora, resta una missione apparentemente più complicata: convincere Rafa Leão a sradicarsi da quella fascia sinistra in cui si è rifugiato troppo a lungo, per fare uno switch mentale simile a quello fatto da Ousmane Dembèlè. Nelle prime due uscite, Rafa lo ha fatto sgolare, ma è un buon segno: i maestri se la prendono soprattutto con i loro alunni prediletti. Rispetto a Fonseca, che un anno fa lo fece accomodare in panchina per qualche settimana senza dargli spiegazioni, almeno a detta del calciatore, è probabile che Allegri cerchi la via del dialogo e della sua irresistibile simpatia per spronarlo, per entrargli nella testa, per fare in modo che possa essere il pezzo mancante che può far compiere un ulteriore salto di qualità al suo Milan. Nella pace del silenzio tornato a dominare tra i boschi di Milanello, spiccano solo le urla di Allegri. Anche questa è semplicità, ed è aria fresca dopo anni di caos.

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