Non è mai peccato mostrare le proprie debolezze. E i migliori calciatori al mondo, anziché porsi come inscalfibili esempi d’invincibilità, possono essere degli esempi di grande impatto sociale in questo senso. Sull’argomento è intervenuto anche Jude Bellingham, ed è un fatto particolarmente importante per due motivi: si tratta di un fuoriclasse dei nostri tempi, un punto di riferimento fra le nuove generazioni; il suo appello è arrivato in occasione della Giornata mondiale della salute mentale, venerdì 10 ottobre. “Dobbiamo fare di più e rompere il tabù del silenzio attorno a questa tematica”, esorta il centrocampista del Real Madrid, parlando a Laureas Sport. “Ci sono ancora tanti pregiudizi. Anche nel mio caso, ci sono stanti momenti in cui mi sentivo vulnerabile, dubitavo di me stesso, e avevo bisogno di parlarne. Invece ho cercato di mantenere quell’immagine da atleta-macho del tipo “non ho bisogno di nessuno”. Un errore: non c’è niente di sbagliato, al contrario, a manifestare le proprie vulnerabilità”.
Così Bellingham, pur nella gioventù dei suoi 22 anni, ha presto cambiato approccio. “La verità è che ho bisogno di qualcuno, come chiunque altro. E ti senti molto meglio quando condividi i tuoi pensieri ed emozioni. Da atleti professionisti sembra che abbiamo il mondo ai nostri piedi: la realtà è che se riusciamo a rivelare le nostre debolezze, si apre un più ampio dialogo con tutte quelle persone che soffrono nell’ombra. È dovere delle persone come me, e di quelle nella mia posizione sociale, essere dei modelli da seguire”. Le parole di Bellingham sono un calcio alla vergogna, alle pressioni altrui che occorre scrollarsi di dosso. “Quando giocavo a Birmingham”, racconta, “cercavo spesso il mio nome su Twitter per leggere qualunque cosa si dicesse sul mio conto. Anche se i commenti erano positivi, presto ho preso una decisione: “Perché dovrei lasciare che le opinioni di persone che nemmeno conosco legittimino ciò che penso di me stesso?” Credevo di essere un buon giocatore già prima di leggerlo su Twitter, dunque qual era il punto di tutto questo? Ovviamente, se incappavo nei commenti negativi l’effetto era l’opposto. E allora, di nuovo, mi sono domandato? “Perché mi faccio condizionare da queste cose, a discapito della mia salute mentale?” C’è già abbastanza negatività e pressione nello sport professionistico che davvero non è il caso di snocciolarne altra. Oggi, quando leggo quegli stessi commenti, non mi faccio influenzare – ma in ogni caso preferisco non vederli”.
Se un ragazzo come Bellingham ha avuto le sue difficoltà di fronte allo spietato tribunale dei social, figurarsi allora qualunque altro suo coetaneo esposto al pubblico elogio o ludibrio. “Con l’ascesa dei social media e della tecnologia contemporanea”, mette in guardia il campione, “ci sono più modi di attaccare qualcuno, di farlo a sentire a disagio – e penso ci sia ancora un grosso stigma attorno a tutto ciò quel che concerne la salute mentale”. Anche per questo Jude ha fatto appello alle autorità pubbliche e ai colossi di settore per rafforzare le restrizioni sull’hate speech e altre pratiche di dubbia liceità – che tuttavia, in quanto catalizzatori di engagement, vengono tollerate dalle piattaforme oltre ogni ammissibile eccesso.
Che gli atleti – e non solo loro – abbiano bisogno di costante supporto per la loro salute mentale è una voce che a poco a poco si sta facendo coro. Prima di Bellingham ne aveva parlato con altrettanta franchezza il compagno di Nazionale Phil Foden, mentre in Italia anche Robin Gosens e Álvaro Morata hanno posto l’enfasi sull’importanza di affrontare questa problematica senza esitazioni. “I calciatori, prima o poi”, tracciava la linea il capitano della Spagna, “possano allenare la mente esattamente come fanno con il corpo. Quando la testa non funziona bene, tutto diventa difficile e allora ogni giocatore diventa il peggior nemico di se stesso”. Va capito e incoraggiato. Non soltanto per il rendimento dei professionisti, ma soprattutto per il percorso verso il benessere di ogni persona.