Altro che polo, golf o lacrosse. Non serve andare troppo lontano con l’immaginazione, per inquadrare uno sport inaccessibile alla stragrande maggioranza della popolazione – naturalmente, per praticarlo ad alti livelli. “Il tennis è uno sport per ricchi”, dichiara laconico Dominic Thiem, che a tennis ha smesso di giocare soltanto pochi mesi fa dopo una signora carriera – culminata nella vittoria dello US Open nel 2020, e in altre tre finali raggiunte tra Australian Open e Roland Garros. “Quello che costa è l’allenamento: dai 13 ai 18 anni, o almeno fino a quando gli atleti iniziano a guadagnare, bisogna sborsare quasi un milione di euro in totale”. Una cifra spropositata, “che praticamente nessuno può permettersi”.
Il problema di fondo, all’inizio, è che come tutti gli sport individuali il tennis richiede una preparazione sostanzialmente personalizzata – con immediate differenze di costo rispetto a contesti di squadra come nel calcio o nel basket. Se poi il ragazzo o la ragazza in questione si rivelano bravi, determinati a raggiungere i livelli agonistici, allora il budget attorno alla racchetta sale esponenzialmente. “Anche se aiutiamo i genitori e cerchiamo sponsor o investitori per finanziare la loro carriera”, spiega il 32enne austriaco, “risulta comunque molto dispendioso. Quando hai 15 o 16 anni e inizi a giocare nei Grandi Slam junior, viaggi quasi come un professionista: 30 o 35 settimane all’anno. E non ci sono premi in denaro, quindi spendi e basta. Hai bisogno di supporto, qualunque cosa accada. Nella nostra academy, cerchiamo di aiutare le famiglie con meno risorse in modo che se un giovane ha talento, possa comunque allenarsi e inseguire il suo sogno”.
Dopo il ritiro infatti, Thiem ha subito aperto un centro sportivo nel suo paese natale con l’intento di mettere i tennisti del futuro nelle migliori condizioni possibili per emergere. Anche perché i meccanismi che ci sono oggi si rivelano una mazzata per le finanze delle loro famiglie. “La soluzione più comune”, spiega l’ex numero tre del ranking ATP, “è affidarsi agli investitori privati: qualcuno mette 50 o 100mila euro all’anno su di te, in cambio riceve una percentuale del tuo reddito futuro, di solito con un tetto massimo. L’ho fatto anch’io quando avevo 15 o 16 anni: ricevevo 80mila euro a stagione e ho iniziato a restituirli dopo i 21 anni, quando ho iniziato a guadagnare davvero”.
E a poco servono i montepremi dei grandi tornei per controbilanciare le spese – certo, a meno di diventare Sinner o Djokovic: più in generale, la carriera diventa davvero redditizia a partire dalle prime 100-150 posizioni ATP e WTA. “Sembrano cifre enormi, ma l’apparenza inganna: su un assegno da 65mila sterline a Wimbledon, per esempio – cioè un’eliminazione al primo turno – si perde facilmente il 60% fra tasse, costi dello staff tecnico, spese di viaggio e per le attrezzature. E con gli sponsor si devono pagare ulteriori imposte in base ai giorni trascorsi in paesi come il Regno Unito o gli Stati Uniti, perché la propria immagine compare in televisione con i loro vestiti o il loro logo”. Insomma, dietro una ristrettissima élite si perpetua una marea di tennisti che fatica a trasformare la passione sportiva in una vera e propria professione. E infatti sono sempre di più gli atleti, anche ai massimi livelli, che per sostenere il ritmo del Grande Slam trovano inaspettate risorse anche altrove.